ELINE GRIGNARD / “Pennello le immagini”: ornamento, aura e mezzo. Riflessioni sul concetto di ornamentale a partire dagli scritti Sull’hashish di Walter Benjamin

Matteo Fantozzi

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“Stiamo seguendo gli stessi percorsi di pensiero di prima. Solo che sembrano ricoperti di rose” scrive Walter Benjamin sulla soglia della raccolta intitolata Sull’hashish[1] che raccoglie le poche note e osservazioni scritte sotto l’effetto di droghe all’inizio degli anni Trenta carattere incompiuto e talvolta incompleto, sono frammenti sparsi, riflessioni non ancora schiuse dal pensiero analitico e come colte nella loro fuga dallo stesso Walter Benjamin ma anche da altri amici – Egon e Gert Wissing, Fritz Fränkel, Ernst Bloch – che si incontrano regolarmente per sperimentare pensiero, sotto influenza.

Se i percorsi del pensiero, nella droga, fioriscono e fioriscono nel loro divenire ornamentale, è anche una formula che sembra acquisire un valore programmatico e impegnare un orizzonte di attesa.

arte e rappresentazione
Pennello l’immagine (LaFuriaUmana.it)

Tra il 1927 e il 1934, Walter Benjamin e i suoi amici e compagni che sperimentavano gli psicofarmaci si incontrarono in luoghi diversi (Marsiglia, Ibiza, a volte i luoghi non sono menzionati). Si tratta quindi di protocolli sperimentali, appunti presi al momento o testi scritti poco dopo la presa. I testi rasentano talvolta l’assurdo e tentano di seguire il più fedelmente possibile il movimento del pensiero, di trascrivere le attività, i dialoghi, le sensazioni e le emozioni dei “mangiatori di hashish”, secondo la formula di Benjamin.

L’ornamento, nell’esercizio della percezione divergente, è un catalizzatore del pensiero. In quest’atmosfera, per usare un termine caro a Léon Daudet[2] di cui sappiamo che Walter Benjamin era un accanito lettore, l’influenza della droga sulla percezione determina un ambiente o un’atmosfera al centro della quale si verificano eventi inesistenti. . ordinari che non vengono trasmessi da gesti o azioni. In una sorta di abbandono percettivo, questo attimo fluttuante in cui la coscienza si perde, in cui le qualità sensoriali delle cose e degli oggetti si amalgamano e si corrispondono, il soggetto influenzato entra nel dominio dell’aura autentica. Alla soglia dell’esperienza auratica, ornamento.

Si tratta di proporre una rilettura problematica della raccolta intitolata Sull’hashish di Walter Benjamin con il concetto di ornamentale e di riflettere su questioni di percezione sensoriale legate all’attività formale dell’ornamento. Illuminare queste frange sconosciute della percezione e produrre una forma di conoscenza attraverso l’esperienza sensibile: il progetto riflessivo di Benjamin si sviluppa in tre momenti (esperienza, percezione, cognizione) che costituiscono questi protocolli di esperienze.

I rapporti tra ornamento, aura autentica e medium coinvolgono una sorta di software formale in cui si tratta del dinamismo delle superfici e della messa in movimento dell’inorganico. Secondo Benjamin, “ciò che designa l’aura autentica: l’ornamento, un’inclusione ornamentale nel cerchio dove la cosa o l’essere è strettamente racchiuso come in una teca”[3]. L’ornamento e l’aura autentica si coniugano nel progetto figurativo che fonde l’oggetto stesso e l’aura che da esso emana attraverso il movimento associato. È infatti l’idea di una circolazione di forme – nel senso di traffico e movimento circolare – che l’ornamentale viene a mettere in opera. Walter Benjamin sembra privilegiare il vitalismo e il movimento dell’“aura autentica” o dell’“aura secolarizzata”, in contrapposizione all’aureola ovale chiaramente delimitata che circonda le figure sacre in ambito religioso.

L’impresa critica ed epistemologica di Benjamin lascia il campo aperto all’esperienza; intraprendere questi sentieri inesplorati, “cosparsi di rose”, dove le esperienze della droga coinvolgono, significa fare un passo da parte, disabituarsi al mondo per vederlo di traverso. Sembrerebbe che l’ornamentale intervenga proprio in questo momento in cui l’esperienza limitata dell’ebbrezza delle forme conduce verso ciò che costituisce, secondo Benjamin, “l’aura autentica”.

Dall’ebbrezza delle illuminazioni rimbaldiane alla “foschia dell’erba” [4] che Jim Hoberman descrive quando racconta le sue esperienze di spettatore sotto l’effetto di droghe (marijuana, LSD), comprese le allucinazioni sotto l’effetto di coccio di Walter Benjamin , il carico psicotropo sembra moltiplicare le facoltà sensoriali. In queste esperienze limite, i dati sensoriali degli oggetti che ci circondano producono qualcosa come una confluenza ornamentale: una macchia, un alone su un muro diventano improvvisamente il supporto di un vitalismo formale vicino a quello che Henri Focillon chiama lo “strano regno dell’ornamento”. .”[5] Secondo il ruolo sussidiario di riempimento della superficie che spesso gli viene assegnato e al quale è limitato, l’ornamento viene utilizzato a capriccio. La licenza ornamentale è così soggetta «al principio delle metamorfosi, che le rinnova perpetuamente, e al principio degli stili che, attraverso una progressione ineguale, tende successivamente a provare, a fissare e a disfare i loro rapporti».[6] Il capriccio formale dell’ornamento, sotto influenza, descrive il contorno di una “vita organica” che “disegna spirali, orbi, meandri, stelle”. [7]

Sulla base di alcune piste di riflessione provenienti dai protocolli sperimentali di Benjamin, si tratterà di ampliare il problema attorno alla questione dell’ornamentale nel cinema. Come possiamo parlare di pensiero ornamentale riguardo al film? In che modo l’ornamentale, come estensione degli studi sul figurale, produce un regime formale e figurativo dell’apparenza? Come si costituisce l’ornamentale come categoria estetica?

Sotto influenza, il mezzo

influenza mezzo
Sotto influenza, il mezzo (LaFuriaUmana.it)

Se intendiamo il medium sia come supporto per l’apparizione delle immagini sia come ambiente ambientale, semitrasparente, che viene immediatamente donato alla sensazione, l’attività collaterale della droga sulla percezione illumina allo stesso tempo queste aree eteree qualità, ai margini dell’ordinario. Walter Benjamin, nei suoi scritti sull’hashish, riporta le condizioni di esercizio della percezione sotto influenza e descrive minuziosamente i microeventi visivi che, nell’hashish, assumono altre proporzioni, si dilatano a dismisura e non possono essere colti solo in maniera empirica e sensibile. modalità. Entrare nel “cerchio incantato” [8] dell’ornamento, secondo la formula di Oscar Wilde, è anche, per Benjamin, sperimentare l’aura autentica, questo ambiente ambientale dove la vita ornamentale delle forme: intreccio, ripetizione, serialità sono i termini di un equazione formale dell’ornamento sotto influenza.

Dopo aver preso l’oppio, questa droga che lui chiama anche coccio, Walter Benjamin descrive lo spazio in cui evolve, un luogo da cui emanano lampi visivi, un dettaglio che lo ferma e focalizza la sua attenzione, un colore che si staglia dal suo supporto, un motivo di carta da parati che prende vita nell’illusione della profondità. Ma, ancor più di questi stati di coscienza, è più la sensazione materiale dell’ambiente – aria, acqua, gas e altri stati della materia – che diventa opaca, aderisce al tatto e diventa quasi palpabile. Gli scritti riuniti in questa raccolta hanno senso solo alla luce di ciò che Benjamin offre, vale a dire un’esperienza del mezzo stesso, come spazio intermedio tra me e le cose, un vuoto dal quale le qualità mi sono estranee e dal quale , nell’hashish, trova una formulazione materiale. “Pennello le immagini” scrive in francese nel testo originale come a rappresentare attraverso il linguaggio questa flessibilità dell’immagine, un regime visivo che si inserisce in una dimensione plastica e materica attraverso eventi visivi che sembrano acquisire vita propria per “le mangiatore di hashish” o “fumatore di oppio”. In diverse occasioni, quando descrive le sue esperienze sotto l’effetto di droghe, evoca una sensibilità accentuata, che dà visibilità alle parole: il linguaggio cessa improvvisamente di essere lo strumento di comunicazione, le parole diventano il supporto per una rappresentazione visiva del pensiero. La fuga dei loghi e l’anestesia del linguaggio liberano una miriade di piccoli eventi che di solito non attirano l’attenzione. È questa attenzione focalizzata sugli oggetti infrasottili e casuali che trovano una maggiore evenienza, la cui apparizione spetta a Benjamin catturare.

Pensiamo ovviamente all’“hashchichin club” fondato nel 1844 che riunisce ogni mese scienziati, pittori e poeti per sperimentare gli effetti della droga. Baudelaire vi partecipò per diverso tempo e ne riporterà nella raccolta di poesie Les paradis artificiales. È in questo patrimonio che dobbiamo leggere questi frammenti di esperienze dove si tratta di sguardo fluttuante, di uscita da sé, di perdita di riferimenti spaziali e temporali e di inerzia percettiva. Su questi resoconti di esperienze che portano il soggetto in uno stato di coscienza che privilegia l’irruzione ornamentale e la cinematografia delle forme si basa l’ipotesi di questa indagine sulla percezione sotto l’influenza dell’ornamento e sull’apparenza dell’aura. Nella tradizione baudelairiana o rimbaldiana dell’ebbrezza e dell’illuminismo, Walter Benjamin traspone l’esperienza degli artisti “sotto influenza” dalla sfera artistica a quella intellettuale. Se è vero che l’artista investe pienamente l’esperienza della droga nella creazione, qual è la postura dell’intellettuale sotto influenza? Come trasmettere e tradurre questa esperienza intima e unica? Si può parlare di valore aggiunto per il pensiero quando è soggetto alle fluttuazioni dei farmaci?

Quando Walter Benjamin dice “pennello le immagini” è per esprimere un’impressione di spessore, come se le immagini fossero dense, folte e si moltiplicassero costantemente – parla di produzione a scatti di immagini, evoca un tesoro di immagini , qualcosa di sepolto e nascosto che la percezione fluttuante viene alla luce e rivela. Si tratterà quindi di percezione non ordinaria delle cose dove il tempo subisce variazioni (rallentamento, allungamento, accelerazione, abbagliamento), acuità visiva divergente, monopolizzata da immagini, suoni, modelli e colori. Sono, in particolare, i rapporti che l’autore intesse tra l’aura autentica, il medium, l’ornamento e quanto riguarda l’illuminazione profana a costituire il nodo concettuale di questa ipotesi, del tutto speculativa, sull’attività ornamentale.

Walter Benjamin e protocolli sperimentali: acuità divergente e non focalizzata

Confrontando le due edizioni, francese e inglese, del testo di Walter Benjamin sulla base dei testi originali pubblicati con il titolo originale Über hashich talvolta pubblicati su riviste o giornali come la Frankfurter Zeitung. Tutti gli scritti sull’hashish furono poi pubblicati nel volume IV delle Gesammelte Schriften. La prima pubblicazione francese risale al 1993. Troviamo, ad esempio, il testo che fu scritto in occasione di un consumo di hashish a Marsiglia nel 1928 e che costituisce la prima versione del testo più noto degli scritti di Benjamin sulla droga, “Hashish a Marsiglia” pubblicato nel 1932 sulla Frankfurter Zeitung poi in francese sui Cahiers du Sud nel 1935, che ora si trova nel secondo volume dell’opera omnia di Walter Benjamin edito da Gallimard. Il tentativo di uno studio esaustivo e sistematico della ricorrenza del termine “ornamento” permette di rivelare punti di convergenza tra un pensiero dell’aura, che si diffonde attraverso diversi testi dell’autore e che è da collegare con un pensiero di il medium come illustrato da Antonio Somaini nel suo studio dal titolo “L’oggetto attualmente più importante dell’estetica”.Benjamin, il cinema e il “Medium della percezione”. [9] Nella sua opera L’opera d’arte al momento della sua riproducibilità tecnica, Walter Benjamin propone una definizione del “medium” come “mezzo di percezione”, influenzato dal pensiero dell’atmosfera e dell’ambiente, questo spazio intermedio dove avviene la percezione sensibile. È a partire da questa duplicità semantica del “mezzo” e dall’insospettata ricchezza del termine nel pensiero di Benjamin che si articola questa ipotesi sull’ornamento.

In una lettera indirizzata a Gerhard Scholem, Benjamin esprime il desiderio di scrivere un lavoro sull’hashish ma non ne avrà mai veramente l’opportunità, questi appunti e questi piccoli testi sono tutto ciò che resta di questo progetto incompiuto o abortito. La natura stessa di questi testi, appunti, riflessioni più o meno elaborate, testimonia una scrittura abbastanza secca, a tratti molto descrittiva, che segue il flusso del pensiero sotto l’effetto della droga, con ovviamente i suoi guizzi, le sue allucinazioni visioni ma anche le sue latenze. A volte abbiamo passaggi che funzionano come parentesi, fluttuazioni, questi sono tutti questi momenti senza peso che sentiamo anche nella scrittura ed è per preoccupazione di empatia formale con la struttura del testo stesso che dobbiamo insistere sull’aspetto frammentario proponendo uno studio per frammenti.

“È noto che, quando chiudi gli occhi e li premi leggermente, compaiono figure ornamentali, sulla cui forma non hai alcuna influenza. Le architetture e le costellazioni spaziali che vediamo davanti a noi nell’hashish hanno originariamente qualcosa di simile a questo. Quando e in che forma si presentano? Inizialmente sono involontari, poiché si verificano in modo così improvviso ed estemporaneo. Poi, una volta che sono lì, arriva l’immaginazione più consapevolmente giocosa, che si prende con loro alcune libertà. [10]

Questo primo frammento stabilisce un chiaro rapporto con la visione ad occhi chiusi, vicino a quello descritto dal regista Stan Brakhage in Metafore e visione[11] quando parla di visione ipnagogica. Nell’introduzione, Jean-Michel Bouhours mostra chiaramente come il cineasta americano abbia apportato, verso la fine degli anni Cinquanta, un certo mutamento di prospettiva, secondo lui radicale quanto la svolta cubista di un Picasso o di un Braque, nel rifiutare i fondamenti della nostra rappresentazione dello spazio ereditata dalle ricerche prospettiche del Rinascimento. Privilegia quella che chiama una visione colta, in un certo senso “selvaggia”. stimoli retinici.

“Guarda il film con i tuoi occhi sensibili, e questa vera cometa venuta dal cielo inviata dal proiettore sullo schermo ti incuriosirà al punto che il suo gioco sottile ti trasmetterà tutto ciò che è rappresentato, un’autentica coda di cometa che alla fine guiderà te al creatore del film. Intendo semplicemente che i ritmi mutevoli del raggio di luce che passa completamente sopra le teste degli spettatori potrebbero, in senso artistico, portare una qualche forma di esperienza spirituale.[12]

Chartres Series (1994) di Stan Brakhage deve essere inteso soprattutto, in una prospettiva autobiografica, come il prodotto sia di un’illuminazione che di una reminiscenza: prolunga per immagini una visita fatta dal cineasta a Chartres nel 1992. È uno dei suoi tanti film dipinti a mano, tagliati in quattro segmenti o momenti separati.

Questa esperienza della visione ci permette di vedere qualcosa come aloni luminosi e colorati che persistono ed evolvono in questo spazio fluttuante e irreale che sembra esitare tra l’affermazione della superficie e la rivelazione di una certa profondità. Non possiamo davvero descrivere queste esplosioni di luce che irrompono nell’oscurità come filamenti, più o meno densi, a volte di colore opacizzato a volte vicino alla trasparenza.

Si tratta infatti di un esperimento cinematografico, che riecheggia quelli realizzati dallo scienziato John Lilly negli anni ’60 negli Stati Uniti. Vicino al movimento della controcultura californiano, John Lilly, al fianco di Allen Ginsberg e Timothy Leary, condusse esperimenti incentrati sull’attività della coscienza sottoposta a sostanze psicotrope e sugli effetti causati dall’assenza di dati sensoriali. All’inizio degli anni ’50 le sue ricerche si concentrarono sullo studio degli effetti della deprivazione sensoriale e sviluppò una scatola isolante, chiamata anche “bagno galleggiante”. Ha progettato uno spazio chiuso e impermeabile in cui il soggetto si bagnava in una soluzione salina, privato di qualsiasi stimolazione sensoriale. Secondo la sua ipotesi, il soggetto privato dei dati sensoriali dovrebbe addormentarsi dopo un lungo momento di inattività. L’esperienza della scatola di isolamento sensoriale rivela, al contrario, che il cervello risponde con una certa iperattività; sono queste le manifestazioni visive, allucinazioni vicine alle visioni ipnagogiche del cineasta sperimentale Stan Brakhage, che il film di Melvin Moti restituisce.

Mentre il film si apre su uno schermo nero, una voce lontana parla:

“Una spirale si muove verso di me, è fatta di piccoli puntini, ed è appena visibile. Mi è sembrato che provenisse da sinistra. E anche se sembrava ruotare verso il centro, ora è bloccato. Sembra avere le dimensioni di una mano tesa, quasi 90 centimetri”

La meticolosa descrizione di un fenomeno visivo, il cinema di questo prigioniero, immerso nell’oscurità, viene subito interrotta da una voce maschile: “puoi dirmi di più sulle sue dimensioni? Qual è il suo colore? “. Sulla base di resoconti scientifici e di numerose ricerche effettuate a monte, l’artista olandese Melvin Moti scrive un dialogo immaginario che si confronta con la descrizione di forme che sono in realtà, capiremo alla fine del film, i riflessi e le radiazioni della luce che attraversa una vetrata colorata, secondo un preciso protocollo scientifico. Seguendo il lento andamento e il disvelamento del motivo a rosone di una vetrata colorata trafitta dalla luce, l’artista interroga la percezione sensoriale legata alla visione ad occhi chiusi, ma indirettamente si pone anche la questione del rapporto con il linguaggio e con la descrizione che è il cuore dell’esperienza. Infine, è anche una riflessione attorno al dispositivo stesso del cinema, il film non è altro che un’indagine sulle proprietà del mezzo – iscrizione nel campo, evento visivo, tracciamento del motivo ed effusione di luce e colore, dispositivo di visualizzazione . Il titolo si riferisce ad esso, siamo nel cinema del prigioniero, questo dispositivo di produzione e proiezione di immagini orientate verso l’interno che viviamo nell’isolamento e nella deprivazione sensoriale.

Per The Prisoner’s Cinema, l’artista ha intrapreso un’importante ricerca per svelare questo fenomeno visivo che mette in discussione il funzionamento della percezione: cosa vediamo al buio, lo sguardo può essere completamente cieco? Il bagaglio di esperienze che alimenta la riflessione dell’artista è unanime: la comparsa, nel senso quasi epifanico del termine, di forme colorate e luminose sarebbe una risposta neurobiologica al buio prolungato. I prigionieri rinchiusi in una cella immersa nell’oscurità, uno spazio a geometria variabile che influenza la percezione dei punti di riferimento spazio-temporali, assistono a una proiezione interiore, realizzando il proprio cinema. Queste variazioni nell’intensità della luce e nelle forme colorate sono infatti la manifestazione artistica più pura dell’attività cerebrale.

In Chumlum di Ron Rice (1964), il cineasta sperimentale riunisce le figure incandescenti della Factory di Andy Warhol (Berverly Grant, Mario Montez, Jack Smith, ecc.) in una composizione laminata dove le sovrapposizioni si moltiplicano fino a creare strati sedimentari nel quadro. La musica ipnotica di Tony Conrad, figura eminente del cinema strutturale, scandisce la sfilata di figure smaterializzate da procedure di trasparenza. I volti e i colori si fondono, assistiamo a qualcosa come un elogio della spazzatura. Vicino alla visione caleidoscopica che offre una visione prismatica e moltiplicata di schemi e corpi in movimento, Chumlum è anche un invito al tatto.

Come un laboratorio ornamentale al lavoro, Chumlum evoca costellazioni di corpi che appaiono e scompaiono nello spessore dell’immagine. Moltiplicando a dismisura le superfici assistiamo alla fusione teratologica di termini contrastanti, visioni spaiate, motivi intricati che tuttavia non cessano mai di escludersi a vicenda. È attraverso le possibilità del mezzo stesso, in particolare quelle della sovrapposizione come collage e operazione palingenetica di divoramento di motivi l’uno dall’altro, che il regista riesce a respingere i limiti dell’inquadratura e a evocare una nuova economia visiva, sia ottica che visiva. tattile. Sul modello ornamentale dell’arabesco, che si evolve in volute e controcurve, tra pieni e vuoti, il film allenta le categorie estetiche e fa collaborare i sensi. Tra l’infinitamente pieno e il vertiginoso vuoto assistiamo a fenomeni di superficie dove le trame procedono slegandosi e incrociandosi, dove i corpi smembrati e inorganici si ricompongono in una logica copulatrice. Le forme e le figure sono mascherate, non corrispondono più alla loro identità visiva, spossessate delle loro qualità. Se l’esaustività diventa principio attivo di un’indagine sull’esperienza del visibile sotto psicofarmaci, è nel dispiegamento stellare e sproporzionato di motivi, di figure in generazione di se stesse, escludendo così ogni tentativo di esaurimento. Nelle possibilità e nei capricci del procedimento visivo, è la struttura patchwork che sfida e promuove un regime visivo tattile, sottolineato dall’uso dei tessuti, come una seconda pelle dell’immagine. Ciò che emerge in superficie sono le texture – la cui duplicità semantica permette di pensare ai tessuti – di cui sono ornati i corpi e che ostacolano la trasparenza dello schermo. Innestato sulla sovrastampa, il velo colorato funge da schermo, nel primo senso, ostruisce e diventa allo stesso tempo supporto per una rivelazione.

In un altro frammento Walter Benjamin propone un tentativo di definizione dell’aura autentica, sempre sotto l’effetto di droghe. Durante una conversazione con la moglie di Egon Wissing, Gert Wissing, sull’essenza dell’aura, egli distinse tra l’aura autentica e le rappresentazioni convenzionali e banali dei teosofi, con riferimento all’aureola chiaramente delimitata delle figure sacre. Egli comincia postulando che ogni cosa abbia un’aura, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non esistono oggetti o soggetti che siano auratici ed altri che non lo siano; In secondo luogo, il movimento imposto a questa cosa ne modifica profondamente l’aura e si potrebbe addirittura dire che è il movimento a determinare l’aura dell’oggetto. Infine Benjamin mostra che l’aura autentica non può essere rappresentata come l’aureola magica e spiritualista, impeccabile, ben definita delle figure sacre – quell’aureola dorata e ovale che descrivono i libri mistici.

«Al contrario, ciò che designa l’aura autentica: l’ornamento, un’inclusione ornamentale nel cerchio dove la cosa o l’essere è strettamente racchiuso come in una teca. Niente dà un’idea dell’aura così precisa come gli ultimi dipinti di Van Gogh dove l’aura è dipinta contemporaneamente all’oggetto – così si potrebbero descrivere i suoi dipinti” [14]

Walter Benjamin stabilisce l’ipotesi di una fusione tra l’oggetto stesso e l’aura che da esso emana, l’idea di un movimento associato all’oggetto e di un vitalismo della forma che energizza la percezione della volontà di averlo. Di questo frammento conserviamo l’idea di una circolazione – con questo doppio significato che produce un movimento ma un movimento circolare – dell’aura autentica, non una forma ovale ben delimitata ma piuttosto una zona di confluenza ornamentale che avvolge, circonda la figura o l’oggetto e che, allo stesso tempo, annulla l’opposizione tra la figura e lo sfondo.

È questa idea di amalgama in qualche modo, di irresolutezza formale che dice l’aura ed è attraverso l’ordine ornamentale, questo sovvertimento che la dinamica ornamentale produce che l’aura diventa autentica. L’alone ornamentale è diffuso, non è mai chiaramente delimitato e contribuisce a creare un’aura autentica.

L’ornamento, in quanto autentica aura, riguarda tutto e non si lascia mai disgiungere, come ci racconta Georges Didi-Huberman nell’articolo da lui dedicato a «L’ebbrezza delle forme e l’illuminazione profana» di Benjamin pubblicato sulla rivista online Images revues[15 ], l’aura autentica comporta un movimento e una metamorfosi quasi cinematografica delle sue qualità. Ciò che è in gioco nella nozione di aura ripensata da Benjamin attraverso il prisma delle sue esperienze con la droga è una posizione intellettuale che mette in discussione il nostro rapporto con il mondo: come abitare il mondo e come dubitarne?

Georges Didi-Huberman mostra che la “risposta” di Walter Benjamin, parallela al procedimento brechtiano di distanziamento, prevede di estraniarsi dal mondo circostante e di metterlo a distanza, producendo una scomposizione attraverso l’aura autentica, vale a dire l’esperienza dell’illuminazione profana , in contrapposizione all’aura di culto delle scene religiose. Si tratta quindi meno di misticismo o di trascendenza che di esperienza. È in questo preciso momento, ci dice Benjamin, che entrano in gioco le immagini, in questo in-between che produce l’effetto della droga, tra empatia e distanziamento.

In questo frammento sono le qualità mobili degli oggetti e dei soggetti contenuti nell’hashish che devono attirare la nostra attenzione. Georges Didi-Huberman mostra che “l’identità e la fissità delle cose lasciano il posto a un’alterazione e a una metamorfosi in cui il soggetto si ritrova come attirato, annegato, immerso empaticamente”. È attraverso il movimento e l’effetto della stranezza che viene evocata l’aura. Notiamo di sfuggita che l’analisi di Georges Didi-Huberman si ferma proprio su questo passaggio in cui definisce quale sia l’aura autentica nell’hashish; cioè un’inclusione ornamentale della cosa o dell’essere. Pensare insieme all’aura come mezzo e all’ornamento come vettore auratico significa impegnarsi nell’esperienza inebriante su sentieri laterali, in periferia, che disegnano una traiettoria non lineare, fatta di biforcazioni. Di questa «conclusione radicalmente moderna, materialista e formalista (e quindi radicalmente antispiritualista)»[16], si conserva l’accresciuta sensibilità del soggetto influenzato che sperimenta la maestosità delle cose semplici, un’epifania materialista degli oggetti e dell’ambiente circostante .dove si esercita la sua percezione. La rivelazione dell’aura attraverso l’esperienza dell’ambiente è accompagnata da un certo movimento, un cinematismo della forma del tutto opposto all’aspetto ieratico di una figura congelata nei propri contorni. Lo svelamento ornamentale del mezzo comporta una metamorfosi e una dissoluzione delle forme l’una nell’altra, come un velo opacizzante che offusca la visione. Vitreo o nebbioso, lo sguardo del soggetto che vede, sotto influenza, aggrega gli elementi sparsi per restituirli in superficie, come fenomeni puri i cui effetti di materia e consistenza testimoniano un puro investimento cinematografico del mezzo. Prolungando le riflessioni di Benjamin e il commento di Georges Didi-Huberman, potremmo postulare che il pensiero del medium e la rivelazione dell’aura non sono disgiunti da un’attività ornamentale (mobile, improvvisa e seriale) investita dalle potenzialità proprie del film (movimento , scorrimento, ripetizione).

Se è vero che l’aura e l’ornamento erano legati nel movimento e nella cinematografia, si tratta anche di un’acutezza sensoriale decuplicata dall’hashish che permette questa metamorfosi della realtà. In più occasioni Benjamin scrive di essere sotto l’influenza delle immagini, di provare fortemente una strana sensazione legata ai suoni, di non riuscire più a differenziare l’interno dall’esterno e di confondere le diverse temporalità, tutte riportate nel momento.

Il cinema, con i propri mezzi, potrebbe quindi trascrivere al meglio l’esperienza sotto influenza. In Visa de Censure No., qualcosa come una poesia sulla vita e l’immaginazione di una generazione, quella che aveva appena compiuto 20 anni negli anni ’70. Le operazioni formali sono numerose e il “software ornamentale” utilizzato dà l’impressione di una cancrena. una minacciosa proliferazione di motivi ornamentali, colori ed effetti luminosi: utilizzo di filtri colorati, pezzetti di primer di pellicola e perforazioni che diventano essi stessi pattern. Pierre Clémenti mescola anche media diversi come il super 8 e il 16 mm, gioca con le sovrapposizioni e si diverte a filmare lampeggianti, cartelloni e segni grafici; filma ciò che lo circonda, vediamo estratti di concerti e immagini da archivi televisivi. È un cinema molto vicino ai film del regista sperimentale canadese Etienne O’Leary, di cui è amico e con il quale ha collaborato a diversi progetti.

Ma è proprio nei suoi appunti sul coccio che Benjamin approfondisce davvero la questione ornamentale in rapporto alla vita e alla circolazione delle forme. In un passaggio del Protocollo X possiamo leggere:

“Non esiste legittimazione del coccio più duratura della consapevolezza di penetrare improvvisamente con il suo aiuto in questo mondo superficiale più nascosto e normalmente più inaccessibile che l’ornamento rappresenta. Come sappiamo, ci circonda quasi ovunque. Nonostante tutto, raramente la nostra capacità di comprensione è così carente come di fronte a lui. Di solito lo vediamo a malapena. Nel coccio, invece, la sua presenza ci preoccupa intensamente. È a tal punto che attingiamo giocosamente, con un profondo sentimento di benessere, a queste esperienze di ornamento che abbiamo potuto osservare negli anni dell’infanzia e nella febbre; sono costruiti su due elementi distinti che raggiungono entrambi il loro effetto supremo nel coccio. Questa è la polisemia dell’ornamento.»[17]

Collegando alcune situazioni – l’infanzia e la febbre – a quelle dell’esperienza della droga, Walter Benjamin stabilisce un parallelo tra due stati percettivi non ordinari. Se cerchiamo il punto comune tra queste diverse situazioni, siamo sempre ricondotti alla percezione del mondo, un essere nel mondo molto particolare determinato da un rapporto anche singolare con la lingua, legato a una concezione prelinguistica della il mondo. La febbre, come i farmaci, è un fallimento dell’organismo che comporta una percezione non ordinaria, alternativa e quasi patologica. Torniamo alle considerazioni sull’uscita di sé: la febbre o l’illuminazione profana e poetica testimonia la stessa modalità di percezione di quella del bambino, che non è stata ancora fagocitata dal linguaggio. Non si tratta di semplificare le cose, in un movimento regressivo, ma piuttosto di una postura critica che mette in discussione l’ordine del discorso in relazione all’ordine dell’immagine. Potremmo estendere questa riflessione dicendo che, nell’hashish, esiste un ordine ornamentale delle immagini che permette di guardare in modo nuovo il dettaglio e l’accessorio, questi oggetti avvolti nella loro inclusione ornamentale.

In un film di Leighton Pierce, artista e videomaker americano che affronta proprio questioni di percezione legate alle potenzialità e qualità del mezzo video, intitolato Retrograde Premonition (2010), è una questione di sfocatura e spessore dell’immagine , a cui si potrebbe contrapporre la profondità di campo quasi inesistente. Mentre si trattava di occhi annebbiati e visione regressiva, il film di Leighton Pierce propone una riflessione fenomenologica sull’immagine e sulla trasformazione della realtà attraverso il mezzo.

Inoltre, nel Protocollo X:

“Non ce n’è alcuna che non possa essere vista almeno da due lati distinti: cioè come formazione superficiale ma anche come configurazione lineare. Ma il più delle volte le varie forme, che possono essere raggruppate in modo molto diverso, consentono una pluralità di configurazioni. (…) Bisognerà anche mostrare che questa facoltà di ricevere diverse interpretazioni, che trova il suo fenomeno originario nell’ornamento, rappresenta solo un altro aspetto della singolare esperienza identitaria alla quale il coccio dà accesso. L’altro tratto con cui l’ornamento promuove l’immaginazione del coccio risiede nella sua perseveranza. È molto strano che alla fantasia piaccia rappresentare ai fumatori gli oggetti – tanto più perché sono piccoli – in serie. Le serie infinite in cui riaffiorano sempre davanti agli occhi gli stessi utensili, gli stessi animaletti o le stesse forme vegetali, rappresentano in qualche modo i contorni crudi, appena delineati, di un ornamento primitivo.[18]

Il brano successivo si concentra sui movimenti delle tende, sulle correnti d’aria che formano silhouette femminili e sul pizzo come stencil, una sorta di filtro visivo, che merita particolare attenzione per quanto riguarda una riflessione sulle texture nel cinema. In questo importante passaggio Benjamin si interessa alle modalità di comparsa dell’ordine ornamentale attraverso il prisma dell’ebbrezza formale prodotta dalla droga. Questo ordine di ornamento è designato attraverso tre caratteristiche chiaramente definite nel testo di Benjamin: formazione della superficie (in comune con il pensiero di Kracauer sviluppato ne L’Ornamento della Messa), configurazione lineare, motivi di serializzazione.

Questi residui visivi, tanti scarti che la coscienza di veglia relega ai margini della percezione, affiorano in superficie e appaiono come veri e propri eventi visivi, come se l’esperienza ancorata all’ambiente, medium della percezione, potesse estendersi attraverso altri medium, quello della percezione. film in particolare. Il racconto dei protocolli sperimentali sull’hashish appare impoverito e incapace di restituire l’ampiezza delle sensazioni provate di fronte alle immagini brulicanti, che emergono all’improvviso per poi dissolversi. La descrizione esaurisce le sue risorse: “erano essenzialmente immagini di oggetti. Ma spesso con un tocco fortemente ornamentale. Sono preferiti gli oggetti che portano questo tocco: i lavori in muratura, ad esempio, oppure le volte o alcune piante. All’inizio ho coniato l’espressione “palme lavorate a maglia” per designare qualcosa che vedevo. La metafora tessile, ancora una volta, sembra preponderante per restituire l’impressione prodotta dagli oggetti avvolti nell’aureola ornamentale dell’aura. Ciò che si presenta alla nostra attenzione, nell’ordine ornamentale, sono oggetti obsoleti, dettagli su cui non focalizziamo la nostra attenzione. Point de gaz (2012) di Jodie Mack rinnova, attraverso il film (scorrimento e intreccio di superfici tra loro), queste considerazioni attorno al mezzo come superficie di iscrizione per l’attività ornamentale. Qui troviamo un interesse per la creazione di forme artigianali e tradizionali creazione come il ricamo per esempio. Filma frontalmente e full frame per far risaltare la superficie e modifica diverse texture, combinando i diversi punti e motivi.

In Ornament (2011) di Devon Damonte si tratta degli strati di vernice colorata prelevati dalle palline delle decorazioni natalizie e poi posizionati sulla pellicola. Questo lavoro sulla trasparenza e sul colore trasmette un pensiero sull’ornamentale come rapporto differenziale tra un motivo e il suo supporto, tra un ornamento e un ornamento. Tutto avviene come se l’attenzione fosse focalizzata sui dettagli e questo si oppone ad una percezione funzionale e utilitaristica della realtà. Qui la selettività dello sguardo che collega percezione e azione è sospesa. Ciò che viene mostrato non corrisponde più ai modi ordinari di guardare la realtà. Nell’ornamentale assistiamo ad una sorta di crisi della percezione visiva.

Pellicola di plastica | Ornamentale?

L’ornamentale non designa tanto un repertorio di motivi né una tassonomia di stili ma è piuttosto un modus operandi che disfa le opposizioni che lo racchiudono (astratto/figurativo, acutezza focalizzata/attenzione fluttuante, pieno/vuoto, disegno/colore, superficie/ profondità…). Si tratta quindi meno di sottoporre le immagini in movimento al vaglio dello studio scientifico dell’ornamento (motivi e tecniche esposte in sequenze formali e/o cronologiche) ma di proporre un modello di pensiero sulle immagini stesse. L’interesse dell’ornamentale è la sua capacità sovversiva di annullare le opposizioni che lo circondano e di districarsi, per così dire, dal divario esistente tra Belle Arti e Arti Decorative; si creerebbe qualcosa come un’ingiunzione paradossale dell’ornamento, tra un discorso critico virulento che attribuisce l’ornamento alla vanità, all’ornamento semplice o alla forma decorativa che non accede mai a categorie estetiche classiche come la Bellezza, e quella che potremmo chiamare licenza ornamentale, questa forza sovversiva e ribelle che frantuma le antinomie classiche, quelle che oppongono astrazione e figurazione, colore e disegno, natura e artificio, superficie e profondità, centro e periferia e, in senso più morale, l’esuberanza dello stile a una forma di razionale e pratico ascesi delle forme.

Da Bernini a Le Corbusier, lo spettro dell’ornamento si estende in questa dialettica delle forme che gli è specifica, quella che rafforza il dialogo tra pieno e vuoto e mette direttamente in discussione la massima aristotelica dell’horror vacui. Per dirla in modo un po’ radicale, nell’arte minimale c’è l’ornamento ed è forse nel suo rifiuto più totale che l’ornamentale trova un luogo di disputa, in senso forte.

Se l’ornamento è un delitto, come suggerisce Adolf Loos nel suo opuscolo Ornamento e delitto[19], sono gli arabeschi serpentini, il moiré dei colori e altre efflorescenze delle forme a esserne colpevoli. In genere ci opponiamo all’esuberanza delle forme: l’ornamento non è allo stesso tempo primitivo e femminile, oppure minoritario e irrazionale? – alla “legge Ripolin” di una modernità decisamente razionale e funzionale; al contrario, l’ornamentale trasgredisce queste opposizioni per conciliarle nel suo dinamismo dialettico. La porosità dei confini tra Belle Arti e Arti Decorative informa un pensiero contemporaneo dell’ornamentale che unisce “volontà d’arte[20]” e decorativo, contro il quale si iscrive la modernità, e che tuttavia non cessa di interrogarsi in un incessante ritorno di il represso. Il ritorno ai conflitti disseminati nella lunga storia delle forme riporta in primo piano l’idea di un “vitalismo” ornamentale, “un rapporto differenziale – e non come categoria formale precostituita[21]”, attento alla propria storia. Ornamentale o ornamentale, si tratta infatti di mettere in opera una nozione che si riferisce al piacere visivo e che a volte esaurisce le sorgenti del linguaggio: “a questo livello, l’ornamento non è più una cosa, ma un’emozione, una passione, un’idea [22]” che colpisce e impressiona l’occhio.

Tutti i percorsi che troviamo in Benjamin formano una costellazione che sarà il punto di partenza di questa più ampia riflessione sull’ornamentale. Sembra importante fare una distinzione operativa tra ornamento, che si riferisce a forme fisse, motivi che venivano raggruppati in grammatiche ornamentali come quella di Owen Jones e che servivano come fonte di ispirazione nelle scuole di arti applicate e di arti decorative alla fine del XIX secolo e l’ornamentale come modalità operativa. È proprio in termini strutturali che dobbiamo intendere l’ornamentale. L’ornamento come motivo e la tassonomia identificata, classificata secondo periodi, stili, materiali e culture, sembrano meno rilevanti di una concezione dell’ornamentale nel suo aspetto concettuale.

Anche se la storia dell’ornamento è storia del suo progressivo relegamento ai margini della creazione artistica, resta il fatto che l’ornamento è ovunque, questo è già qualcosa che dice Benjamin – dice l’ornamento ci circonda quasi ovunque – lui, ma è sotto il controllo effetto del farmaco che la nostra attenzione è permanentemente fissata su di lui. Thomas Golsenne, che ha recentemente curato un numero speciale della rivista online Images revues, spiega che, secondo lui, esiste una natura superata dell’ornamento[23]. Mentre le teorie dei media mirano ad essere in sintonia con i loro tempi, non potremmo immaginare, riprendendo le domande poste dal pensiero archeologico dei media, un pensiero non simultaneo del mezzo, non eventuale, un pensiero “incorrente”, nel senso di Nietzsche. L’inattualità secondo Nietzsche è questa «volontà di agire contro il tempo, quindi puntualmente e, si spera, a vantaggio del tempo a venire».[24] L’ornamentale è un regime visivo non attuale nel senso di Nietzsche, non appartiene a un tempo particolare e non è assegnabile a un solo luogo; È altrettanto la visione di un capitello corinzio screpolato, un fregio il cui movimento di scorrimento sfuma nella materia delle pietre, un gioiello i cui riflessi proiettano esplosioni colorate, una carta da parati i cui pezzi accumulati si sovrappongono per manifestare lo spessore del tempo, come tante strati successivi di sedimentazione; affreschi che adornano le pareti. Il motivo arabesco che si estende nello spazio di un tappeto e cattura lo sguardo mentre scorre. I motivi compaiono anche sui nostri vestiti, possiamo toccare e vedere i tessuti e le loro trame. Il corpo è anche un laboratorio ornamentale: trucco, acconciatura, cappelli, accessori, tatuaggi…

Parlare di ornamentale in relazione al film non significa quindi tanto individuare motivi e tracciarne la migrazione, da un medium all’altro – dalla pittura al cinema per esempio – o da un’epoca all’altra, a seconda del concetto di sopravvivenza e di pathos formale. avviato da Aby Warburg e sviluppato da Georges Didi-Huberman. Si tratta quindi meno di circoscrivere i motivi ornamentali e di fare quello che sarebbe un inventario delle attività formali dell’ornamento, quanto piuttosto di interrogare l’ornamentale come dinamica, una sorta di modalità operativa che mette in discussione e mette in discussione concetti e nozioni specifiche a dibattiti estetici e teorici antichissimi e che li attualizza. Il progetto ornamentale mi sembra andare oltre questo primo momento che consiste nell’inventariare e realizzare tassonomie per pensare all’attività formale dell’ornamento nel film come un mezzo che attualizza pienamente le sue potenzialità epistemologiche e formali.

Non esistono quindi forme o oggetti che, di per sé, si riferiscano all’ordine ornamentale, si tratta molto più di un rapporto di differenza[25] tra un supporto e il suo ornamento, lo scarto, il rapporto tra un ornato e uno adornante. È qui che entra in gioco la questione dell’ornamentale: questo posto marginale che è stato dato all’ornamento a partire dalla modernità corrisponde a una situazione storica particolare. Al contrario, l’arte medievale, ad esempio, impone un’economia completamente diversa tra rappresentazione, astrazione e ornamento: ciò che il Medioevo ci farebbe vedere è l’ornamentale che non può essere semplicemente ridotto al decorativo. Jean-Claude Bonne, in un articolo fondativo, mostra che esiste un funzionamento dell’ordine ornamentale che trova il suo fine in se stesso, una sorta di finalità infinita dell’atto ornamentale[26].

È in questa prospettiva che dobbiamo attingere alle risorse dell’ornamentale che cessa di essere un valore aggiunto all’opera, una semplice decorazione: l’articolazione tra l’ornamento e la struttura, questa modalità operativa dell’ornamentale che non designa una particolare ambito o tipo di oggetto (legato a uno spazio e a un tempo specifici, e nemmeno a un particolare mezzo di espressione). La matrice ornamentale ha quindi una funzione strutturante capace di attraversare tempi, generi e spazi, è fondamentalmente trasversale.

Nel cinema strutturale conta la configurazione stessa del film, più che l’aspetto formale in senso stretto. Nei film di Paul Sharits, negli anni ’60 negli Stati Uniti, l’intera struttura del film è orchestrata in anticipo poiché la composizione dei suoi film è talvolta modellata su spartiti musicali. È quindi la configurazione che costituisce la parte essenziale dell’impressione prodotta dalla pellicola. In Ray Gun Virus (1966), avviene qualcosa di simile a una macchia di colori, attraverso il lampo di luce. Questo film è la prima parte del suo progetto di decostruzione del cinema mostrando che l’inquadratura del cinema non è solo una finestra aperta su una profondità illusionistica ma anche, e soprattutto, una superficie di iscrizione. Paul Sharits, criticando l’illusionismo cinematografico, insiste sull’articolazione delle parti interne, sulle strutture visibili che diventano grandi composizioni musicali, attivate dal rotolo o esposte nel loro carattere esaustivo, è il caso delle composizioni realizzate con spezzoni di pellicola, ad esempio la serie Frozen Film Frames.

In queste composizioni è l’intera pellicola ad essere esposta, separata dalla procedura di scorrimento. Nei suoi scritti Paul Sharits sottolinea le corrispondenze tra intervalli di tempo, pulsazioni temporali e colori, come accordi sinestetici. Aveva il desiderio di costruire particolari analogie tra i modi di vedere e i modi di sentire. In musica esiste una nota di abbellimento, chiamata ornamento o svolazzo, che sono note secondarie la cui funzione principale è quella di abbellire la linea melodica principale. Con questi fotogrammi monocromi, crea disposizioni e configurazioni strutturali che si riferiscono all’ornamentale, creando effetti di guizzi luminosi dove sequenze di colori si alternano e si mescolano in persistenza visiva, si può quindi parlare di armonia, vicino a quello che già Serguei Eisenstein chiamava “il armonica sonora”.

E per fare eco a questi pochi esempi, possiamo pensare anche ai saggi incompiuti di Oskar Fischinger. Per progettare i suoi Ornament Sounds, Oskar Fischinger ha tentato di materializzare le connessioni tra ornamento e musica, tra visivo e musicale. Quando guardiamo i pezzi di pellicola, vediamo che sui bordi appaiono motivi ornamentali che corrispondono a suoni sintetici. Quando la pellicola scorre attraverso il proiettore, questi suoni ornamentali diffondono determinati toni che può arrangiare e modulare insieme per comporre sinfonie visive. Secondo Fischinger si tratta di una nuova forma di composizione musicale che è a disposizione dei compositori grazie alla riproduzione e agli ornamenti sonori.

Infine, dovremmo esaminare in dettaglio le caratteristiche strutturali dell’immagine ornamentale – prendendo come punto di partenza gli appunti di Benjamin. Parla di “formazione della superficie” e di “configurazione lineare”, nonché di “perseverazione dell’ornamento”, vale a dire di serializzazione del motivo. Sembrerebbe che il rapporto tra pellicola e carta da parati permetta di ampliare lo spettro delle potenzialità critiche dell’ornamentale. La carta da parati innesca un fenomeno di proliferazione ornamentale, un effetto di tracimazione che va oltre il quadro iniziale e diventa minaccioso. Se Jacques Soulillou ha potuto parlare di immagine in movimento o di “acceleratore occhiolino”, è per sottolineare il carattere ripetitivo e quindi dinamico che la carta da parati produce:

“Fatta di pattern, cioè di elementi che hanno al loro interno motus, mobilità, la carta da parati è un’immagine in movimento il cui dispiegarsi è stato spesso descritto come uno stimolo all’immaginazione visiva. Immagine-movimento che ti permette di creare il tuo cinema interiore, chiedendo all’occhio di saltare e scivolare da un elemento all’altro – acceleratore del battito di ciglia. La carta da parati trama un delitto il cui movente è il rivestimento che prende di mira l’opera, sia perché vi si posa sopra interferendo con il suo stesso contenuto, sia perché l’opera viene contaminata dall’interno, cercando di imitare il movimento ottico che attraversa la carta da parati”. [27]

Potremmo contare tre modalità di carta da parati: la spazializzazione che mette in discussione il dispositivo, lo sviluppo nello spazio, il suo potere di assorbimento o repulsione; è il suo carattere sensibile legato alla superficie ricoperta e al luogo che la ripara, vicino alla nozione di atmosfera e, infine, la ripetizione, quello che potremmo chiamare il valore iterativo della carta da parati che moltiplica all’infinito il disegno in modo identico. È proprio quest’ultimo carattere della carta da parati che può condurre ad una lettura allucinatoria della carta da parati che cessa di essere una semplice superficie coperta ma che si apre verso una profondità sotto l’effetto della droga. Le ripetizioni comportano una minaccia di saturazione e il regime di assorbimento delle immagini partecipa all’allucinazione – come nel racconto The Yellow Wallpaper di Charlotte Perkins Gilman dove una donna si sente intrappolata, prigioniera della carta da parati che ricopre le pareti della stanza. stanza in cui è rinchiusa. C’è quindi un assorbimento spaziale, l’apertura verso l’altrove, e un assorbimento mentale, perché ci sarebbe qualcosa di pericoloso o patologico nel fissare i muri, una minaccia moltiplicata per gli effetti psicotropi. Baudelaire aveva già fatto questa osservazione nel suo Poème du hashish che si trova nella raccolta Les Paradis artificialis. Dedica una poesia al delirio di una giovane ragazza vittima di allucinazioni quando fissa troppo a lungo la carta da parati della sua stanza:

“Delicati, mediocri o addirittura brutti, i dipinti del soffitto assumeranno una vita spaventosa; le carte da parati più rozze che rivestono le pareti delle locande si scaveranno come splendidi diorami. Le ninfe dalla carne luminosa ti guardano con occhi grandi, più profondi e limpidi del cielo e dell’acqua; i personaggi dell’antichità, vestiti con i loro costumi sacerdotali o militari, si scambiano con voi solenni confidenze attraverso un semplice sguardo. La sinuosità delle linee è un linguaggio decisamente chiaro dove si legge l’agitazione e il desiderio delle anime.” [28]

Seguendo Baudelaire, pensiamo ai dipinti di Vuillard dove le figure si fondono con la superficie della carta da parati, in una rappresentazione letterale dell’espressione “fare arazzi”. Come prolungamento di questa riflessione sulla minaccia ornamentale della carta da parati, il film di Chloé Maillet e Louise Hervé, The Bleeding Wall (2012) è in questo senso sintomatico di un’ansia legata al rivestimento delle superfici. Dall’inizio della loro collaborazione, i due artisti hanno sviluppato un corpo di lavoro che si modella su un tipo di ricerca specifica per antropologi e storici, con le categorie empiriche e gli strumenti che ciò implica (etichette, inventari, sequenza temporale). Entrambi hanno studiato storia dell’arte ed è stato attraverso questo che si sono conosciuti; nelle loro installazioni, film e performance, mettono spesso in discussione metodi e principi della ricerca con un tono anticonformista, un certo spirito critico nei confronti della figura autoritaria del ricercatore. Con questo film The Bleeding Wall, gli artisti hanno realizzato un libero adattamento del racconto The Yellow Wallpaper di Charlotte Perkins Gilman, mescolato al mondo del thriller americano Amityville, House of the Devil e Fantomas Against Fantomas di Louis Feuillade. Questi riferimenti hanno in comune il gusto per la decorazione, la descrizione degli arredi, delle carte da parati o degli elementi architettonici di una casa che non solo destabilizzano psicologicamente gli abitanti ma talvolta finiscono per ucciderli. Il film, presentato come installazione alla Fondation Ricard nel 2012, mostra un uomo intrappolato nei motivi di una carta da parati con colori e motivi antiquati. Non è chiaro se si tratti di una forma di allucinazione o se la carta da parati abbia improvvisamente vita propria. Facendo eco a ciò, un passaggio del romanzo En rade di J-K Huysmans mostra chiaramente come le superfici ornamentali nascondano una sorta di cinematismo intrinseco e talvolta si aprano su una certa profondità:

“Cercava di anestetizzare le sue ansie con occupazioni meccaniche e vane; contò i rombi del pannello, notando attentamente i pezzi di carta appesa i cui disegni non si univano; all’improvviso si verificò un fenomeno bizzarro: i legni verdi dei tralicci ondeggiarono, mentre il fondo salmastro della pannellatura si increspò come un rivolo d’acqua. E questo arricciamento della partizione si fece più pronunciato; la parete, divenuta liquida, oscillava, ma senza allargarsi; presto si sollevò, spaccò il soffitto, diventò immenso, poi le sue macerie fluenti si aprirono e si aprì una breccia enorme, un arco formidabile sotto il quale sprofondava una strada”[29]

Eline Grignard

[1]Walter Benjamin, Sull’hashish, Tradotto dal tedesco da Jean-François Poirier, Parigi, Christian Bourgeois, 2011.
[2] Léon Daudet, Mélancholia, Parigi, Edizioni Bernard Grasset, 1928.
[3] Walter Benjamin, Sull’hashish, op. cit., p.56.
[4] Jim Hoberman, “La guida del Cineaste per guardare film mentre è sballato” in The Nation, 3 ottobre 2013.
[5] Henri Focillon, Vita delle forme, Parigi, PUF/Quadrige, 2010, p. 13
[6] Ivi, p. 8.
[7] Ivi, p. 4.
[8] Oscar Wilde, Le intenzioni, il declino della menzogna, Bruxelles, 1986, p. 46: “All’origine dell’arte troviamo la decorazione pura, l’opera del tutto immaginaria e disinteressata che si ispira ad un mondo senza realtà e senza esistenza. Questa è la prima fase. Allora la vita, sedotta da questa nuova meraviglia, chiede di essere ammessa nel cerchio incantato.
[9] Antonio Somaini, “L’oggetto attualmente più importante dell’estetica”. Benjamin, lui il cinema e lui “Mezzo della percezione” in Fata Morgana N.20 “Cinema”, 2013, pp. 117-146: “egli termina Medium nell’uso che ne fa Benjamin ha un senso molto particolare che dovremo approfondire: il Medium o “Medium della percezione” [Medium der Wahrnehmung] è infatti per Benjamin l’ambiente, la regione ontologica intermedia o , possiamo dire che accade nello stesso momento in cui finisce e ha sempre una storia importante, è nel mezzo che ha una percezione sensibile. Un mezzo in continua configurazione, plasmato, modulato, scolpito, da un’Apparatur tecnica in continua evoluzione” p. 118.
[10]Walter Benjamin, Sull’hashish, op. cit., pag. 16.
[11] Stan Brakhage, Metafore e visione, Parigi, Editions du Centre Pompidou, Paris Expérimental, 1998.
[12]Stan Brakhage, op. cit., pag. 25.
[13] Stan Brakhage, op. cit., pag. 24.
[14] Walter Benjamin, op. cit., pag. 56.
[15] Georges Didi-Huberman, “L’ebbrezza delle forme e l’illuminazione profana”, Images Re-vues [Online], serie speciale 2 | 2010, documento 3, pubblicato online il 1 gennaio 2010, consultato il 19 marzo 2014. URL: http://imagesrevues.revues.org/291
[16] Georges Didi-Huberman, “L’ebbrezza delle forme e l’illuminazione profana”, Images Re-vues [Online], serie speciale 2 | 2010, documento 3, pubblicato online il 1 gennaio 2010, consultato il 19 marzo 2014. URL: http://imagesrevues.revues.org/291
[17] Walter Benjamin, op. cit., pag. 56.
[18] Walter Benjamin, op. cit., pag. 56.
[19] Adolf Loos, Ornamento e crimine, e altri testi, Parigi, Payot et Rivages, 2003.
[20] Alois Riegl, Questioni di stile, Fondamenti di una storia dell’ornamento, Parigi, Hazan, coll. “35/37”, 2002.
[21] Thomas Golsenne, “L’ornamentale: estetica della differenza” in Perspective 2010-2011 (1), Revue de l’INHA, “Ornemental/Ornemental”, p. 13.
[22] Oleg Grabar, “Sull’ornamento e le sue definizioni” in Perspective 2010-2011 (1), Revue de l’INHA, “Ornement/Ornemental”, p. 5.
[23] Thomas Golsenne, “L’ornamento oggi”, Images Re-vues [Online], 10 | 2012, accesso effettuato il 19 marzo 2014. URL: http://imagesrevues.revues.org/2416
[24] Friedrich Nietzsche, Seconda considerazione superata, Sull’utilità e lo svantaggio degli studi storici per la vita, traduzione di Henri Albert, Edizioni Garnier-Flammarion, 1998.
[25] Thomas Golsenne, “L’ornamentale: estetica della differenza” in Perspective 2010-2011 (1), Revue de l’INHA, “Ornemental/Ornemental”, p. 13.
[26] Jean-Claude Bonne, come in “Ornamentale nell’arte medievale (VII-XII secolo). Il modello dell’isola”, in J. Baschet e J.-Cl. Schmitt (a cura di), L’immagine. Funzioni e usi delle immagini nell’Occidente medievale. Cahiers du Léopard d’Or, n° 5, 1996, p. 207-249
[27] Jacques Soulillou, Il libro dell’ornamento e della guerra, Marsiglia, Edizioni Parentesi, coll. “Eupalinos”, 2003, p. 70
[28] Charles Baudelaire, Paradisi artificiali, Parigi, Poulet-Malassis e de Broise, 1860, pp. 78-79.
[29] J-K Huysmans, En rade, Parigi, Gallimard, 1984, p. 58.

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