Che cos’è il Western?

R.C

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D.H. Lawrence ha scritto che l’America ha prodotto due tipi d’uomini: i Franklin (si veda il ritratto di Carlos Williams), bottegai, e i Whitman («O Vagabondo sulle libere strade spinte sempre avanti!»; «caro padre, vecchio solitario maestro di coraggio»), voci possenti e genuine che annunciavano una nuova e più potente umanità. Molti studiosi hanno polemizzato con lo storico Turner, che ha sempre creduto che la Frontiera fosse stata, nell’Ottocento, una fonte di valori eccezionalisti e anomali, mentre per Lewis Mumford o V.L. Parrington, ad esempio, essa ha prodotto solo individualismo rapace, uno spirito ben distinto altro da quello dei trascendentalisti (Emerson, Thoreau) che si incarnava nella bruta materialità di pionieri mercanti utilitaristi e accumulatori che bramavano solo di sfruttare a più non posso le immensità dell’Ovest.

cos'è il western
Che cos’è il western – Lafuriaumana.it

“Credo avrebbero dovuto vedere qualche buon western, magari di De Mille, per imparare una verità elementare, probabilmente troppo per anime belle e così raffinate, che fanno fioretto nel cielo delle idee gustandosi il té sul sofa: e cioè che esistono sia il Bene che il Male, sia il pulito e aitante Joel McCrea che il villain molle Brian Donlevy, c’è colui che si allontana dall’Est per sperimentare l’avventura dell’Ignoto come Kirk Douglas in Il grande cielo (The Big Sky, 1952)di Howard Hawks o per tradire la sua cultura e disintossicarsi – respirare aria pulita – come il “Doc” Hollyday di John Ford (Sfida infernale); e ci sono anche gli accumulatori in De Mille, Ford o in Raoul Walsh, per esempio in Sul fiume d’argento (Silver River, 1948) o nel tardo I cancelli del cielo (Haven’s Gate, 1980) di Cimino; e, ancora, ci sono coloro che erigono il potere sul possesso come in La lancia che uccide di Dmytryk, L’uomo di Laramie (The Man from Laramie, 1955) di Mann e Wichita (Id., 1955) di Tourneur. Il Western è un chiasmo, le situazioni si presentano in posizioni incrociate: «Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori»; «entra da un lato e fuor per l’altro passa».

Cosa racconta il cinema Western

Il cinema western racconta l’Ovest ma nasce nell’Est, nel New Jersey, dove si gira il primo western: L’assalto al treno (The Great Train Robbery), nel 1903, sull’abbrivio delle gesta del “Wild Bunch”un film diretto da Edwin S. Porter e prodotto dalla Edison. Era qualche anno, ormai, che il Mito del Far West, aveva invaso l’Est con riviste e spettacoli, dipinti e autobiografie.

Del western, dunque, sappiamo dove e quando è nato, e conosciamo pure i genitori: da un lato il cinema e dall’altro il Mito del Far West, al quale avevano grandemente contribuito, sul piano visivo, i dipinti e le sculture di Frederic Remington (1861-1909) e Charles Marion Russell (1864-1926). Ma acciuffare e stringere fra le mani la sua identità è un’operazione – qualora interessi – molto più difficile: il pargolo è uscito di casa, ha preso la sua strada e i genitori ne hanno perduto controllo e tracce.

cosa racconta il western
Di cosa parla il cinema western – Lafuriaumana.it

Il western è il cinema americano per eccellenza sentenziava André Bazin nell’introduzione al celebre libro di Jean-Louis Rieupeyrout del 1953– si sarebbe tentati, su queste basi, di dire che, allora, il western è il cinema per eccellenza. E si sarebbe, pure, tentati di prenderla per buona e valida questa sentenza così suggestiva in quanto definizione, anche perché le difficoltà insite nel dare una caratterizzazione precisa e analitica, formale e schematica, del western non solo vengono illustrate efficacemente nel libro di Rieupeyrout, ma rimangono attuali.

Secondo Bazin: “sarebbe vano sforzo cercare di limitare l’essenza del western a una qualsiasi delle sue componenti visive. Gli stessi elementi si ritrovano altrove ma non hanno le prerogative e i doni naturali che sembrano congeniali a questo “genere”. Evidentemente il western deve consistere in qualcosa che sta al di là della sua forma: le cavalcate, le battaglie, gli uomini forti e coraggiosi che si muovono in un paesaggio di selvaggia austerità non sarebbero elementi sufficienti a definire o a circoscrivere il suo fascino”.

Pur nella difficoltà di coagulare il western attorno ad alcuni caratteri comuni e ricorrenti, nell’introduzione al libro di Rieupeyrout, Bazin individua comunque alcune occorrenze regolari come la presenza dei cavalli (siano essi quelli del cowboys o quelli dei soldati), gli spazi aperti, le battaglie tra americani e indiani, o tra nordisti e sudisti, la presenza di uomini dalla forte personalità e dalla naturale propensione all’avventura. Il western, per il fondatore dei «Cahiers du Cinéma» è la sintesi di quei caratteri di aggressività, di coraggio, d’avventura, d’individualismo, di lealtà che costituiscono il mito della società americana.

Immediato, tra pistole, sceriffi e duelli, si affaccia il tema del mito. Il western salda le sue basi sulla storia americana, quella della conquista di una nuova terra e della nascita di una nazione. I suoi eroi sono quei pionieri che hanno lottato contro le avversità di una terra selvaggia e dominata dagli indiani. Ma sono anche quei soldati che ne hanno difeso i confini: il genere è ricco di western militari (quelli di Ford, L’avamposto degli uomini perduti, L’assedio delle sette frecce o il magnifico Rocky Mountain di William Keighley).

Il western racconta della genesi di una nuova cultura inscritta nel West ancora non civilizzato, che nasce in una terra di nessuno e, pertanto, di tutti, dove la legge non esiste ancora e la giustizia è solo quella che si ottiene con le proprie mani: usando le sei colpi. La storia di una nazione, della sua nascita, la nascita della nazione americana – il film che il cinema americano, almeno quello classico, non ha mai smesso di raccontare – si trasforma subitaneamente e geneticamente in Mito, con i suoi eroi e le sue leggende.

Il western, secondo l’elegante e sobrio Roger Tailleur, è un genere, ma un genere a cui ci si consacra totalmente, sottoposto in quanto tale a regole che ci si ostina a chiamare rigide e che, in realtà, consistono solo in alcuni limiti di spazio e tempo, dall’Alaska al Messico e dal 1700 al 1900, fra cui si muovono, con libertà e fantasia, personaggi con comportamenti fra i più vari e complessi alle prese con situazioni diverse che declinano nelle variazioni del genere come il film biografico per trasposizione e quasi mai per trascrizione sulle gesta, esaltate o desacralizate, di Wyatt Earp (Dwan, Ford, Sturges, Tourneur), Will Bill Hickok (De Mille), Buffalo Bill (Wellman, Richard Brooks); sui pellerossa (fortemente innovativi quelli degli anni Cinquanta senza dimenticare, però, il prodigioso e anomalo La storia del generale Custer (They Died with Their Boots on,1941) di Walsh o Il massacro di Forte Apache (Fort Apache, 1948) di Ford); a sfondo politico (contro il maccartismo) come Mezzogiorno di fuoco (High Noon, 1952) o La campana ha suonato (Silver Lode, 1954) di Allan Dwan; attraversato da vibrazioni erotiche e correnti sensuali come Il mio corpo ti scalderà (The Outlaw, 1940-43) o Duello al sole (Duel in the Sun, 1946); a carattere storico con la Guerra di secessione rappresentata in Nascita di una nazione (The Birt of the Nation, 1915) di Griffith o Via col vento (Gone with the Wind, 1939) di Fleming, ambientati nel West come Mare d’erba (Sea of Grass, 1947) di Kazan che, su uno sfondo melodrammatico, narra dell’antagonismo sociale fra grandi proprietari terrieri dediti all’allevamento di bestiame e piccoli agricoltori, un tema che attraversa molti western, come, del resto, quello del bestiame (Il fiume rossoGli implacabili) e, soprattutto della Frontiera o della Terra promessa (o conquista del West), da Passaggio a Nord-Ovest (Northwest Passage, 1940) di King Vidor a La carovana dei mormoni (1950) di Ford; o, ancora, giocati sul motivo del missaggio culturale e linguistico, tipico della civiltà americana, mostrato in Il cacciatore del Missouri (Across the Wide Missouri, 1951) di Wellman, Il grande cielo di Hawks o Lampi nel sole (Thunder in the Sun, 1959) di Russell Rouse; il Sogno americano, certo, ma pure la critica di questo sogno fracassatosi contro gli interessi predatori di speculatori, affaristi e politicanti che espropriano uomini e donne di terra e libertà in L’uomo senza paura (The Man Without a Star, 1955) di Vidor o Il re della prateria (These Thousand Hills, 1959) di Richard Fleischer fino a I cancelli del cielo di Cimino, o ancora nel minore, interpretato da Randolph Scott, L’ultima sfida (Forth Worth, 1951) di Edwin L. Marin.

Un genere polifonico che suona a più voci, tipicamente americano, dunque, dove le innovazioni, come quelle del Secondo dopoguerra (allegoria politica, critica storica, contrappunto filosofico, umanizzazione dell’eroe, diverso ruolo della donna), non schiacciano definitivamente le coriacee tradizioni: d’altronde, già un film classico come Partita d’azzardo (Destry Rides Again, 1939) presenta un eroe spogliato di superpoteri e una donna perduta che si redime sacrificandosi – anche se le donne di Rancho Notorius (Id., 1952) di Lang, Johnny Guitar (Id., 1953) di Ray e Quaranta pistole (Forty Guns, 1957) di Fuller – e perfino la donna-sceriffo di Roger Corman in Il mercenario della morte (The Gunslinger, 1956) – e la demistificazione, per trasposizione, di eroi leggendari come Custer e Buffalo Bill in L’ultima frontiera (The Last Frontier, 1955) di Mann e L’ultima caccia (The Last Hunt, 1956) di Richard Brooks, in effetti, si spingono in un’altra direzione.

Nel western, sempre per Tailleur, coesistono passato e presente, le categorie si accavallano, integrano, aggrovigliano rendendo più difficile la catalogazione o la classificazione. Il meticcio è re, in questo genere, le carte, come avrebbe detto più tardi un altro attento e appassionato studioso del western, si rimescolano declinando sempre storie diverse. Storie di poesia e di violenza, solide e scintillanti. Infine, ricorda il critico allora di «Positif», per comprendere e amare il western non si deve puntare la lente di ingrandimento o generalizzare, né soffermarsi sulle grandi produzioni o i capolavori, perdendosi così il gusto di ammirare l’incredibile fermento, la vitalità coraggiosa e l’inventiva febbrile della produzione di serie B che, non di rado, come cavalleggeri tutti d’un pezzo attraversano le immense distese dell’Immaginazione.

Quando si diffonde il termine “western”

Nel 1915, 12 anni dopo L’assalto al treno, il sostantivo “western” non era ancora un termine diffuso, se non come aggettivo (ambientazione western, riferita all’Ovest).

Nel 1925, quando si produssero ben 222 lunghi e 82 corti con cavalcate, numeri da circo e situazioni comiche, il genere western era, ormai, una realtà – e così il termine “western”. Il genere aveva una sua consistenza e i suoi divi: Tom Mix, Tim Holt e William S. Hart (il primo volto granitico che anticipa quello di Randolph Scott, del vecchio Cooper e di Clint Eastwood); il tempo d’oro di Harry Carey, la star dei primi western di John Ford, era già passato. Si trattava di western “fantastici”, pieni zeppi di prodezze, sia degli eroi, spesso ben vestiti, che dei loro cavalli, di cui gli spettatori conoscevano i nomi. Il western non era più un genere minore, al pari dei film comici che, negli anni Dieci, basati sul gag fisico (slapstick), nelle proiezioni facevano da antipasto a film più importanti. Negli anni Venti, il western, dunque, non viene più confinato alle piccole produzioni a basso costo destinate ai cinema di provincia. Il successo di Pionieri (The Covered Wagon, 1923) di James Cruze, che racconta l’epopea del viaggio verso il West, in questo senso, fu determinante.

Tuttavia, l’introduzione e l’affermazione del sonoro nel 1927, rimescolando le carte, avrebbe favorito l’ascesa di altri generi come il musical M-G-M con Fred Astaire e Ginger Rogers; la screwball comedy di Cukor, Capra e Hawks giocata sulla gestualità della parola e il dialogo veloce e, a volte, schizofrenico che, sintomaticamente, sotto una superficie spumeggiante e leggera, allude ad un turbamento sottotraccia che attraversa la società americana; il film horror diretti da Tod Browning o interpretati da Lon Chaney, prodotti soprattutto dalla Universal (DraculaFrankestein); il cinema sociale, specialità Warner, che sfornava film come Nostro pane quotidiano (1934) di Vidor o Furia (1936) di Lang, il gangster-movie con Cagney e Robinson come Nemico pubblico (1931) di Wellman, Scarface (1932) di Hawks, Strada sbarrata (1937) di Wyler, che combina sociale e gangsterismo, I ruggenti anni Venti (1939) di Walsh, forse il culmine del genere; il film di guerra, quasi sempre caratterizzati da un dominante pacifismo (si pensava o si voleva credere la guerra mondiale fosse stata l’ultima).

Nel 1936, quando il sonoro si era già affermato, il genere, asceso negli anni Venti, si decompose (secondo alcuni, fra cui Ford, fu un vero e proprio declino) nel film d’avventura incentrato sulla figura del cowboy cantante (come Gene Autry, ex-cantante radiofonico), basati spesso su adattamenti dei libri di Zane Grey (1872-1939), celebre autore di letteratura western, al pari Louis L’Amour (1908-1988), Ernest Haycox (1899-1950) e Alan Le May (1899-1964); ma questa evoluzione (o involuzione) era già cominciata diversi anni prima, ecco perché, per esempio, Ford abbandonò il genere dopo il 1926: ormai regista d’eccellenza, il cineasta d’origine irlandese da un lato non gradiva gli sviluppi incipienti del genere e dall’altro non voleva certo frequentare un genere che, per ragioni interne al sistema produttivo e all’evoluzione dei suoi stilemi, stava, di fatto, retrocedendo alla produzione di serie B; infatti, negli anni Trenta le case di produzione specializzate nei film western non erano due majors ma la Republic e la Monogram, due piccole case di produzione minori che, in effetti, in quegli anni in cui il genere veniva disertato dai grandi registi, producevano le cose migliori in materia. Nel 1936 si realizzarono, in ogni modo, 135 film, tra cui quelli firmati da Cecil B. De Mille e King Vidor, autori fra i più prestigiosi di Hollywood.

Nel 1947 i film western prodotti da Hollywood furono 95 e, ormai, la moda del cowboy cantante volgeva del tutto a termine. Dal 1939 il genere era ritornato ad essere frequentato dai grandi registi, fra cui Ford, ma da un lato gli anni della guerra rallentarono la ripresa, poiché molti registi (Ford, Walsh) si cimentarono, con documentari e film di propaganda, sia al fronte che a Hollywood, in attività attinenti l’impegno degli USA nella Seconda guerra mondiale, e dall’altro l’ascesa del noir, favorita dal clima di preoccupazione e ansia montante prima e dopo la conclusione della guerra, ne ostacolò la presa della vetta, posticipata di qualche anno.

Nel 1958, in America, si distribuiscono 58 western, (e a Parigi nel 1956 arrivavano nelle sale una quarantina di western); è l’anno di Dove la terra scotta (The Man of the West, 1958) di Anthony Mann, regista che più di tutti, con Boetticher e Daves, rinnova, nel solco del classicismo, il genere, che idealmente chiude il rinnovamento dirigendo l’icona, con Wayne, del cinema western, cioè Gary Cooper, attore intelligente come pochi, che negli anni Cinquanta fornisce – con il suo volto segnato, sempre più malinconico, e la sua postura calma come quella d’un eroe d’altri tempi – un contributo al rinnovamento accettando di farsi dirigere da registi come Aldrich e Delmer Daves. Nel 1958 esce anche La bionda e lo sceriffo una parodia ironica del genere dall’interno, in quanto era firmata da Walsh, fra i più grandi autori di western che, come Ford, non atteso rivisitazioni o venti crepuscolari per fare i conti con il western e, più in generale, con il classicismo ormai prossimo al tramonto.

Gli anni Cinquanta, per molti aspetti rappresentano l’apogeo del genere, perché tutti giravano western. I registi più classici e anziani come Ford e Walsh; gli autori emersi negli anni Quaranta, magari nel noir, come Anthony Mann e Edward Dmytryk, senza dimenticare Delmer Daves; John Sturges, considerato uno specialista di western; e i nuovi registi della generazione di quella decade. Gli anni Cinquanta, dove il western conobbe un grande splendore di forme vive e accese, se non fiammeggianti e barocchi Technicolor (Sentieri selvaggi – The Searchers, 1956), Trucolor (Johnny Guitar) e DeLuxe Color (Gli implacabili – The Tall Men, 1955), ma pure immediate, e forme più semplici, intimiste o dimesse, con tonalità low, autori grandi e autori minori, classici e narratori robusti ma con tocchi delicati; sono l’El Dorado del genere in cui confluiscono e coesistono i maestri, i veterani, i registi professionali, i registi che venivano dal noir (e dall’Europa) e registi emergenti nella decade, e poi i minori: Ford, Vidor, King, Hawks, Allan Dwan, George Marshall, Hathaway, Lang, Preminger, De Toth, Mann, Daves, Boetticher, Aldrich, Ray, Fuller, Brooks, Penn, Roger Corman, Edwin L. Marin, Tim Whelan, Joseph Kane, William Castle.

Rimescolandosi nell’universo meticciato e ibrido del genere, i film western si gonfiano di spessori e strati anche inediti, melò (con Delmer Daves) o politici (Mezzoggiorno di fuoco) oppure mutua alcuni temi e strutture narrative dal noir o dal film thriller e poliziesco ambientando l’enigma e l’indagine nelle praterie del West, soprattutto a cura di registi che, chi più chi meno, avevano una qualche confidenza con il poliziesco (sebbene già l’RKO Romanzo del West – Tall in the Saddle, 1944, dello specialista o minore Edwin L. Marin, aveva un impianto drammaturgico da poliziesco): L’uomo di Laramie di Mann, La frustata (Backlash, 1956) di Sturges e Le colline bruciano (The Burning Hills, 1956) di Stuart Heissler (che si era fatto le ossa con Raoul Walsh, abilissimo sia nel poliziesco che nel western), dove rimandi al Re lear, vendetta langhiana e mito di Edipo, si combinano con la ricerca-interpretazione delle tracce e l’urgenza esistenziale di svincolarsi da un passato appesantito da un mistero opprimente, come già, parzialmente, in Notte senza fine (Pursued, 1947), western noir e psicoanalitico di Walsh. Il tema della vendetta, in questi anni, viene sviluppato, in modo non convenzionale, anche da Budd Boetticher con film come Il traditore di Fort Alamo (The Man from the Alamo, 1953), Decisione al tramonto (Decision at Sundown, 1957) e L’albero della vendetta (Ride Lonesome, 1959).

Per queste ragioni, e anche per altre di carattere produttivo e sociologico (come il trionfo crescente della concorrenza televisiva), in seguito, non si poteva che scendere e declinare.

Nel 1969, i film western distribuiti sono 20; è l’anno di Il mucchio selvaggio (Wild Bunch) di Peckinpah, il più importante fra i registi del western autunnale e crepuscolare o neo-western, le cui radici, peraltro, profondano in alcuni film di Ford, Walsh e Hawks, tutti autori classici; ed è pure l’anno di Ultima notte a Cottonwood (Death of a Gunfighter) firmato da un regista che sia prima che dopo ha girato western notevoli, Don Siegel, e di un western di culto, Ucciderò Willie Kid (Tell Them Willie Boy is Here), dell’ex-black listed Polonsky con il divo progressista Redford.

Nel 1980, l’anno di I cancelli del cielo di Cimino e I cavalieri dalle lunghe ombre (The Long Riders) di Walter Hill, i film western sono soltanto 6 e, ormai, anche i serial televisivi sono soltanto 3, mentre nel 1958 erano 40. Un segno, fra gli altri, del declino produttivo del western che, inevitabilmente, allude e, anzi, implica anche un declino nella qualità: d’altronde, se non ci si esercita nel genere non si possono certamente fare buoni film.

La nascita del genere

Il genere, come detto, e per consenso unanime, nasce nel 1903. Il 1912, nella periodizzazione necessaria ma relativa (a parametri, gusti, sensibilità, consensi di critica), marca un momento forte perché Griffith, che stava, secondo molti, di fatto inventando il cinema o, se si preferisce, il suo “linguaggio”, la sua espressività artistica, gira The Massacre. Un’altra data fondamentale è il 1917, l’anno in cui Ford gira i suoi primi lungometraggi, tutti western.

Una decina d’anni dopo, il genere subisce una trasformazione che lo declassa e dequalifica per un decennio circa. Sebbene fra il 1927, l’anno successivo a I tre furfanti (3 Bad Men), e il 1935, l’anno che precede western importanti di De Mille e Vidor, si realizzarono western di qualità, come Billy The Kid di King Vidor del 1931; inoltre, questi sono gli anni in cui Gary Cooper si afferma come divo assoluto e ineguagliabile (perché grande nei ruoli brillanti e in quelli drammatici) proprio grazie ad alcuni ruoli in film western come La canzone dei lupi (Wolf Song, 1929) e The Virginian (1929), entrambi di Victor Fleming (il regista di Via col vento) e, ancor prima, Sabbie ardenti (The Winning of Barbara Worth, 1927) di Henry King che, nel 1939, giocherà un ruolo importante nel rilancio del western.

Il 1939 è, infatti, l’anno della svolta, in cui il western riprende quota e – questo dà anche la misura della forza di questo rilancio e della qualità dei film usciti in questo anno – nel momento in cui trionfano film come Via col ventoNinotchka di Lubitsch, Mr. Smith va a Washington di Capra, Un grande amore di McCarey, Gunga Din di Stevens e Avventurieri dell’aria di Hawks, drammi storici e melodrammi, commedie sofisticate e commedie sociali, film d’avventura. Come noto, a riguardo, si è parlato di apogeo del classicismo, e a parlarne è stato André Bazin. Il 1939 è l’anno pure di Alba di gloria di Ford, tra i film più ammirati da Ejsenstejn.

Esaurita la sbornia della hillbilly comedy mescolata all’azione tipicamente (e caricaturalmente)western, il genere nel 1939 stacca, nonostante i successi meritati di film appartenenti ad altri generi, anche in ambito produttivo: nel 1934 la produzione western rappresentava il 16% del totale, nel 1939 rappresenta, invece, il 25% della produzione globale. Ma, soprattutto, questo anno sforna capolavori assoluti e resistenti all’usura del tempo e alle tempeste effimere delle mode: La via dei giganti, Gli avventurieriOmbre rosse e Jess il bandito, il film di maggior successo: De Mille, Curtiz, Ford e King, fra i più grandi registi del momento e di sempre, con attori come Gary Cooper, Errol Flynn, Wayne e Tyrone Power. Una congiunzione stellare, forse un evento irripetibile e, comunque, straordinario. Una cesura, una soglia che segna un prima e un dopo.

A dire il vero, per mettere le cose al posto giusto, occorre rilevare che in particolare autori come Cecil B. De Mille e King Vidor avevano tenuto alto il vessillo del western di qualità, caricato (specialmente nel caso di De Mille) di funzioni nobili (in quanto forma narrativa più adeguata ad epicizzare i contenuti della storia americana); Vidor gira, come detto, Billy the Kid nel 1931, con Wallace Beery, e I cavalieri del Texas (The Texas Rangers) nel 1936, film che riscuote un certo successo; De Mille, dal canto suo, dà un grande contributo al rilancio del genere sia fra il 1939 e il 1947 con alcuni film portentosi e pieni di talento, che nel 1936 con un film epocale, nelle forme e nelle intenzionalità che le animano, con Gary Cooper: La conquista del west (The Plainsman, 1936).

Secondo lo studioso Jean-Louis Leutrat, che ha dedicato diversi libri sull’argomento, anche in collaborazione con Suzanne Liandrat-Guigues (con cui ha scritto una monografia su un regista che amava il western: Godard), le carte da gioco del western sono cataloghi, trasformazioni e combinazioni, mescolanze, assimilazioni. Fra i cataloghi, o inventari parziali, figurano i personaggi (eroe, compagni d’avventura dell’eroe, il cattivo, la donna, i gruppi sociali e l’indiano), i luoghi (spazi, mezzi di trasporto, dimore) e le situazioni (i grandi cicli narrativi o schemi come la Guerra di secessione, la conquista dell’Ovest o l’antagonismo fra disunione selvaggia e ordine legale; ma, fra i cicli minori, potremmo citare anche i film sulle invenzioni militari e l’introduzione di nuovi armi come Colt 45 (1950) di Edwin L. Marin).

Personaggi, luoghi e situazioni si costituiscono di ripetizioni e variazioni e ogni catalogo si estende, potenzialmente, a raggiera, producendo altri temi: il ciclo del bestiame implica la rivalità sociale fra allevatori e contadini, l’apparizione del filo spinato che allude alla violenta accumulazione originaria del capitale, in virtù della quale il cattle king altro non è che l’ennesima maschera del capitalista, e così via.

I personaggi del cinema western

Chi è o chi sono i personaggi che animano le vicende dei film western e ne affrontano le situazioni narrative? È importante saperlo perché è solo interrogandoci sull’eroe che potremo risalire alle origini del western.

Anzitutto, l’eroe. Per i formalisti russi, l’eroe è il personaggio a cui viene conferito il colorito affettivo più espressivo e vivace, quello le cui vicende sono seguite dal lettore o spettatore con la maggiore tensione e attenzione, quello che ne suscita la partecipazione emotiva. Chi è l’eroe del western? La risposta appare tautologica: l’uomo del west, il westerner che reincarna, secondo le analisi classiche di Robert Warshow (che lo contrapponeva al gangster, contrapponendo, quindi, l’innocenza e la perdizione dell’America), il prode cavaliere – ovviamente quello idealizzato, non quello reperibile negli studi di Georges Duby. Il tipo dell’eroe americano ha le sembianze del tall slim American, colui che ha calma, che è preciso nel tiro, che sa prendere le cose con ironia senza prendersi troppo sul serio, che ha integrità morale riflessa nel corpo saldo e robusto. L’uomo del west si oppone all’uomo dell’est, un essere insignificante, trafficone, corrotto, codardo, un tenderfoot, un “piedi dolci” rammollito che rischia di corrompere l’eccezionalismo americano, quello che, secondo lo storico della frontiera Turner, corre lungo la linea dell’americanizzazione, cioè della frontiera.

«First of all, the western is American history» (Jim Kitses). L’«American frontier life» è il milieu del western: «the building of the railways, the Indian Wars, the cattle drives, the coming of farmer. Togheter with the last days of the Civil War and the exploits of the badmen, here is the raw material of the western». Il western racconta il divenire-americano dell’americano che non preesiste all’evento della Frontiera; è solo in virtù della Frontiera che l’europeo, il colono, il pioniere, ancora influenzato dalla cultura europea figlia di sperequazioni economiche, gerarchizzazioni, modelli tradizionalisti e deferenziali, distinzioni sociali e privilegi di classe, che diventa un nuovo soggetto: un americano. Non c’è America senza Frontiera. Fintantoché la Frontiera rimane solo potenziale e non viene esplorata, attraversata e sperimentata, l’abitante delle colonie dell’Est rimane ancora europeo. Certo, non si può trascurare l’evidenza storica che alla vigilia della Rivoluzione americana (1774-1781, anche se le ostilità cominciarono con il Boston Tea Party del 1773 e la pace fu firmata a Versailles nel 1783), le colonie dell’Oceano Pacifico si fossero già smarcata dall’Europa promuovendo nuove strutture politiche e nuovi sistemi culturali, sviluppando un’embrionale identità americana (un rispetto meno ovvio per le istituzioni della madrepatria inglese, un individualismo crescente, il sentimento di appartenenza ad una comunità percepita come aperta) – facilitata anche dalla guerra (1756-1763: la Guerra dei sette anni) che i coloni combatterono, sul territorio, al fianco degli inglesi (spesso percepiti come incapaci e inadatti a barcamenarsi su un territorio, per loro, aspro e sconosciuto: istruttivo è Il primo ribelle, un western RKO di William Seiter, con Wayne e Claire Trevor, la coppia di Ombre rosse) contro i francesi e gli Indiani loro alleati. Ma, il fatto fondativo la civiltà americana, la sua cultura, è la conquista dell’Ovest. Una vera e propria trasgressione, una violenza alla tradizione, poiché l’Europa, fin dal mito delle Colonne di Ercole, ha sempre supposto di non avere nessun Ovest, fondando così la sua superiorità. Non lo ha compreso il celebre storico dell’arte Quintavalle firmando la prefazione di uno studioso di icnema nel 1970, insistenza confusamente sulla falsa riga degli stereotipi più triviali del razzismo, del paternalismo, del conformismo. Il terreno dove muoversi, per chi voglia davvero avventurarsi nella struttura vitale del western, è un altro, ed è su questo terreno fertile che occorre inscrivere il rapporto fra il western e la Storia, ben sapendo che l’arte, al pari della storiografia, inventa, immagina, intepreta e che «là corre il mondo ove più versi/di sue dolcezze il lusinghier Parnaso,/e che ‘l vero, condito in molli versi,/i più schivi allettando ha persuaso» (Tasso).

La sostanza del western è nell’«ambiguous, mercurial concept: the idea of the West», che è, insieme, una «direction» e un «place», «an imperialist theme and a pastoral utopia». Il West: Campi Elisi, Atlantide, El Dorado, sogno della vita eterna, Terra promessa, fonte della giovinezza; lo diceva, con più enfasi, anche Bazin: «il western nasconde in sé, più che il segreto della giovinezza, quello dell’eternità». (Probabilmente, questa varietà che ramifica in molteplici filoni (western militari, guerre indiane, costruzione della ferrovia, ciclo del bestiame, sceriffi & fuorilegge…), ripugna i sacerdoti afflitti da lucreziane manie dello spirito smaniosi di ricondurre, sempre e presto, il molteplice all’uno, il disseminato alla purezza astratta dell’universale: in realtà, come ha scritto Marzio Pieri, il western è aperto e mobile, ma forte di convenzioni chiare e distinte).

L’America, all’inizio, è un sogno, un sogno vero, un in-visibile che si fa visibile, si incarna nel supporto materiale della Frontiera, prima quella delle impenetrabili foreste di Thoreau – il Maine, per quanto sia collocato ad Est, a metà Ottocento era comunque l’Ovest di New York, Filadelfia o Albany, dopo il Sud-Ovest e le sue immense praterie. Un sogno per chi? Per tutti coloro che in Europa o nelle colonie dell’Est ancora subordinate all’egemonia culturale dell’Europa, sognavano e speravano la libertà, la facoltà di procurarsi il cibo e soddisfare le proprie esigenze materiali e spirituali sottraendosi finalmente al rapporto di subordinazione, coltivando, ad esempio, la propria terra, come voleva John Locke, secondo cui l’unica proprietà privata legittima è quella da cui il soggetto trae alimento e forza attraverso il frutto del suo lavoro. Se in Europa molti sognavano l’America, una volta sbarcati nel nuovo continente, sulle coste del Pacifico, questi cominciavano a sognare l’Ovest rizomatico, non ancora imbrigliato e codificato, uno spazio libero. Mandriani, coltivatori, minoranze etniche e minoranze religiose, perseguitati politici, tutti costoro sognavano l’Ovest barbarico e desertico, sognavano di allontanarsi dall’Est, dalla Civiltà e dai suoi (troppi) disagi.

Go to the western gate…

 No, there is not a dawn in eastern skies

 To rift the fiery night that’s in your eye (E. A. Robinson)

L’Ovest, prima l’America nel suo insieme e dopo la Frontiera propriamente detta, è quel luogo non-luogo selvaggio dove manca ancora la legge – del più forte. E che cos’è l’Ovest? È il West: il western, forma d’eccellenza del racconto cinematografico, racconta questa storia, questo divenire-americano dell’americano: un Sogno, di terra e libertà.

Il West è un luogo dell’assenza, un vuoto, una cavità nuda e disponibile, che chiama e attende il riempimento di speranze e illusioni, ferrovie e cimiteri, mandriani e monopolisti, farmers e politicanti. Un sogno vero, diceva lo psicanalista Pontalis, è assicurare il possesso pieno di ciò che è stato vissuto senza essere posseduto; è vivere fuori della successione temporale e della limitazione spaziale: vivere fuori dello spazio e del tempo, istituzioni culturali e sociali più che kantiane categorie del pensiero umano, dell’Europa. È un possesso paradossale, senza possesso: infatti, quando la Frontiera diventerà un possesso a tutti gli effetti da sogno degenererà in spettro: finché c’è Frontiera, c’è speranza, finché la Frontiera si allunga e sfugge alla volontà di dominio e manipolazione dell’uomo, il margine e la riserva di possibili sono garantiti.

La Frontiera, l’Ovest, è questo spazio di attrazione, di forze che attraggono altri punti-forza, altri soggetti sparsi per il mondo: con la Frontiera, come ha scritto Whitman, la latitudine si allarga e la longitudine si allunga. La Frontiera, l’Ovest, il West, è l’ultima chance.

L’Ovest, hanno scritto in Mille piani Deleuze e Guattari, è rizomatico, cioè anti-arborescente, anti-gerarchico, non ha fondamento o base su cui innalzare poteri e distinzioni sociali, non ha ascendenze, di cui accaparrarsi, ma solo frontiere mobili, in movimento.

Il sogno americano corre lungo la Frontiera e implica i due tratti distintivi di una civilizzazione, di una nuova civiltà: essere un crogiolo in cui si mescolano tutte le minoranze e formare, su queste basi, capi e guide capaci di affrontare qualsiasi situazione.

L’incontro, spesso traumatico e mortale, con il West, innesca una nuova e diversa cultura, una cultura della promiscuità, del missaggio, della eterogeneità e, perché no?, pure della rivalità inscritta nell’emergente individualismo – che si sviluppa in America, all’Ovest, proprio perché la soggettività che diviene nell’incontro con l’Ovest – l’americano – si libera di schemi culturali che da sempre giustificano la sottomissione dell’individuo non tanto al gruppo, ad un gruppo astratto, all’umanità o all’interesse collettivo, ma agli interessi di determinati gruppi sociali, classi, élites che per mantenere lo status quo, cioè i loro privilegi in materia di risorse e potere, inibiscono l’individualità incapsulandola in regole, codici e doveri che ne snaturano la forza e l’irriducibilità. Un saggio di questa nuova cultura del missaggio si trova, per esempio, in film come Il cacciatore del Missouri, interpretato da un impellicciato Clark Gable, o Il grande cielo.

Questa è la peculiarità del West: la Frontiera indietreggia di continuo e, anzi, deve indietreggiare, pena la conquista e sottomissione della cultura arborescente di questo spazio rizomatico: cosa che, come è noto, accadrà soprattutto dopo la Guerra di secessione, quando il Capitale occuperà i territori dell’Ovest spezzando il sogno di un’umanità che, forse, ha potuto sognare, terra e libertà, per l’ultima volta.

La Frontiera è una presa di forma. Il filosofo Georges Simondon, diceva che la presa di forma è una modulazione che attraversa e ristruttura un determinato ambito o spazio (come può essere l’Ovest americano), in cui si coalizzano due condizioni: da un lato una tensione di informazione che è la capacità di generare un germe strutturale che, propagandosi in questo ambito o spazio, lo plasma e modella, si tratta – è facile riconoscerla – niente altro che dell’attività di pionieri e farmers, dei sognatori che si allontanano dal centro, cioè dall’Est, dall’Europa e dalle colonie orientali; dall’altro una forza, un’energia, una potenza aristotelica, contenuta nell’ambito a cui si dà forma, con la tensione di informazione, che sollecita e invita questa tensione ad esprimersi e manifestarsi, come se questo ambito aspettasse una soluzione per liberare la sua potenza ancora allo stato labile, la sua potenzialità inespressa, si tratta cioè, nientemeno che dell’Ovest rizomatico, vuoto e disponibile che attende di liberare l’energia contenuta.

Se è così, allora, per usare di nuovo un’espressione di Simondon, la Frontiera è trasduttiva: indietreggia incessantemente, procede poco per volta e poco alla volta dà forma all’ambito metastabile, che contiene energia in potenza.

Finché c’è movimento, c’è sogno.

L’Europa, a metà Ottocento, dopo la definitiva Rivoluzione borghese del 1848 che liquida il recente alleato contro l’Ancién regime, cioè il proletariato, stritolata nei vapori tossici e nelle nere tenebre di fuoco dell’industrializzazione, non poteva più sognare, come aveva fatto durante il Rinascimento e, almeno in parte, l’Illuminismo. La rivoluzione umanistica prometteva o annunciava un nuovo avvenire dove la virtus avrebbe dovuto fronteggiare soltanto la fortuna per gonfiare e stimolare il desiderio di ciascuno, la cupiditas spinoziana; e, invece, le rivoluzioni borghesi tradiscono questo auspicio programmato opponendo alla virtù, ancora una volta, ostacoli di natura sociale e politica, storici e culturali, mentre in America, a metà Ottocento, la virtù doveva affrontare, per quanto insidiosi, solo ostacoli di carattere naturale e non antagonismi destinalmente insuperabili e relazioni sociali fatalmente imbalsamate.

Fintanto che il sogno, cioè la Frontiera, indietreggia, c’è apertura, c’è un territorio aperto al Desiderio. Ma è solo questo sfuggimento incessante che può assicurare e perpetuare questo condizione eccezionale e anomala. Solo fin quando resta sempre un resto ancora da esplorare come le mani di cui parlava Husserl, che continuano a toccarsi l’un l’altra passando incessamentemente e reciprocamente dallo stato di mano toccante a quella di mano toccata. È questo, al di là della e contro certa retorica, l’eccezionalismo americano, quello che innerva il cinema western che ha saputo raccontare sia l’Apertura della Frontiera che la sua Chiusura – esemplarmente con John Ford.

Ecco perché il western è l’archetipo della storia americana e, dunque, il genere western è il cinema americano per eccellenza, come diceva Bazin. Il western, lo vedremo, è un insieme piuttosto preciso di stilemi, figure e modalità narrative, che ha le sue ricorrenze, i suoi personaggi, i suoi luoghi e le sue situazioni, certamente, ma, non dimentichiamolo, il western è, anzitutto, la grande narrazione della Nascita della nazione americana, è un attraversamento di confini, poiché ogni uomo ha il suo West.

Nella sua allocuzione all’adunanza dell’American Historical Association di Chicago, il 12 luglio 1893, Frederick Jackson Turner, storico americano della Frontiera, spiegava il nesso fra la peculiare mentalità americana e la Frontiera.

Le condizioni della vita di frontiera plasmarono caratteristiche intellettuali di profonda importanza. Le opere dei viaggiatori che percorsero le diverse frontiere dai primi tempi del periodo coloniale in poi descrivono certi tratti comuni, e questi tratti, pur mitigati, sono sopravvissuti anche quando è subentrata un’organizzazione sociale più elevata. Il risultato è questo: è alla frontiera che l’intelletto americano deve le sue caratteristiche più spiccate. La rudezza e la forza combinate con l’acutezza e la curiosità; la disposizione mentale pratica, inventiva, rapida a trovare espedienti; il mordente magistrale sulle cose materiali, privo di senso artistico ma potentemente efficace per compiere grandi destini; l’energia inquieta, nervosa, l’individualismo dominante, all’opera per il bene e per il male, e al tempo stesso la gaiezza vivace e l’esuberanza che vanno di pari passo con la libertà.

È il mondo del cinema western e dei suoi temi più caratteristici. È la linea dell’americanizzazione, la Frontiera, l’esistenza di terre aperte e disponibili, di nuovi spazi per ricrearsi soggetti finalmente liberi. Dunque, dietro le istituzioni americane pulsano forze vive e operanti che stanno alla radice delle istituzioni e le plasmano. La caratteristica peculiare della storia americana, secondo Turner, sta nel fatto che gli americani, per rispondere alla sfida lanciata loro dall’ambiente, hanno dovuto adattare costituzioni e sistemi politici alle condizioni mutevoli e dinamiche implicate nel processo di nascita della Nazione. Sicché, si tratta di istituzioni fluide, mobili, che mimano l’inizio continuo della Frontiera. Questa mobilità pulsante dà il carattere dell’americano

Le istituzioni politiche, poco importa se bene o male impostate, continuano ad esistere a condizione che gli uomini agiscano; si conservano cioè attraverso gli stessi mezzi che le hanno originate.

La Frontiera, argomenta ancora Turner, è l’incontro fra la civiltà e la barbarie, ma la barbarie non è affatto l’insieme variegato delle nazioni indiane, bensì la natura inospitale, per niente addomesticata o pettinata; mentre la civiltà è l’insieme dei modelli culturali dell’Europa. Più il soggetto, lungo la linea dell’americanizzazione, si allontana dall’Europa più diventa americano.

Devo camminare verso l’Oregon, non verso l’Europa. E in quella direzione che si muove la nazione; oserei dire che l’umanità progredisce dall’est verso l’ovest (…) Andiamo a est per comprendere la storia, per capire opere le artistiche e la letteratura, percorrendo a ritroso il cammino della razza; andiamo a ovest come verso il futuro, con spirito intraprendente e avventuroso. L’Atlantico è una sorta di fiume Lete, e l’attraversarlo ci ha consentito di dimenticare il Vecchio Mondo e le sue istituzioni. Se non riusciamo questa volta, c’è forse un’ultima possibilità prima che la razza umana approdi alle rive dello Stige; e questa possibilità è il Lete del Pacifico, tre volte più vasto.

A contatto con la nuova ambientalità, il pioniere ancora europeo muta radicalmente i suoi costumi – sempre che voglia avanzare e non perire. Per inoltrarsi nella terra oscura, e pure sanguinosa, terra ignota che promette ricchezze di vario tipo, occorre che il soggetto, il pioniere, ripensi i suoi schemi e le sue abitudini. Faccia a faccia con l’avventura dell’ignoto, lontano dal centro, il pioniere tradisce i suoi costumi e le sue origini ritraducendoli a partire dalle nuove condizioni, quelle western.

Egli è vestito all’europea, ha strumenti europei, viaggia e pensa all’europea. La grande distesa solitaria lo tira giù dalla carrozza ferroviaria e lo mette su una canoa di betulle. Lo spoglia dei vestiti della civiltà, lo veste con la casacca del cacciatore e gli mette ai piedi i mocassini di daino. Lo spinge nella capanna di tronchi d’albero del Ciroki e dell’Irochese e lo circonda di una palizzata indiana. Il colono ha già seminato mais e lo ha arato con un legno appuntito; ora lancia grida di guerra, e scotenna nel più puro e ortodosso stile indiano.

L’ambiente all’inizio è troppo violento, estraneo, perturbante, per l’uomo bianco civilizzato. Il colono deve risoggettivarsi per rispondere alle insidie dell’ambiente, deve diventare un americano. Di questa trasformazione culturale, cioè antropologica, dà conto splendidamente King Vidor nel suo Passaggio a Nord-Ovest (1940) con Spencer Tracy nei panni dello scout (personaggio-figura al limite, ambigua e di grande fascino, di passaggio e transizione, come in La freccia insanguinataL’ultimo Apache, Sierra CharribaLa notte dell’agguatoUlzana’s Raid); il film è ambientato alla fine del Settecento, dove il regista mostra tutta l’inadeguatezza delle disciplinate giubbe rosse di Sua maestà nell’affrontare l’ambiente delle paludi e delle foreste, adatto, invece, ai rudi rangers guidati da un truce Tracy: ai rangers riesce perfino di prendere sonno dolcemente in questo contesto, terrificante per gli inglesi, adagiandosi con tutta naturalezza sui robusti rami degli alberi che emergono dalla palude.

L’Indiano fu per Daniel Boone il più grande maestro. Non certo per diventare egli stesso un indiano, per quanto essi cercassero ardentemente di adottarlo nelle loro tribù, ma il contrario: per essere se stesso in un nuovo mondo, da indiano. Se la terra doveva essere posseduta, il solo modo era di possederla come la possedevano gli indiani.

Soggettivarsi, mettersi in movimento, partire per l’ignoto, sconfiggere la paura e la pigrizia spirituale della vita pacifica e seduta che, come diceva Pessoa (nell’eteronimo di Alvaro de Campos), fa ostacolo al divenire e al “noi” estatico – cioè ad una nuova e più alta comunità – e sbarra il coraggio rintanando gli individui, aggregati solo statisticamente, nella vigliaccheria. Il filosofo Alain Badiou ravvisa e indica con lucidità nel genere western, un motivo fondamentale che percorre tutto il secolo Novecento: il nomadismo collettivo, lo sradicamento dalla familiarità e dalla sistemazione di comodo. Il western presenta un appello al coraggio, libera l’uomo dalla paura che lo immobilizza e rende impotente, la paura di perdere quel poco che è e quel poco che ha – soprattutto all’interno dei rapporti asfittici che lo strangolano nei modelli deferenziali e nei gironi infernali delle distinzioni di classe in Europa. La posta in gioco, nel western, è la potenza del pensiero.

Il grande contributo dell’America alla tematica del secolo è proprio quello di avere inserito nel cuore del suo cinema il problema della genealogia del coraggio e dell’intima lotta contro la vigliaccheria. È questo che rende il western, imperniato esclusivamente su questa lotta, un genere solido, moderno e ricco di tanti capolavori.

La lotta che pulsa nel cuore del western, non riducibile allo scontro fra personaggi e poli divisi da rivalità, è quella che, rifiutando la vigliaccheria, fa balzare l’uomo in avanti, contro le tradizioni e la routine, per metterlo in movimento, lungo la linea della Frontiera, un luogo del tutto opposto al giardino che Voltaire suggeriva di coltivare, sebbene, come ha scritto Williams, occorre non dimenticare che se «la tremenda energia della nuova raza è la sua prima caratteristica; la seconda è il suo terrore dinanzi al NUOVO (si pensi al puritanesimo e al rapporto con l’Indiano).

Il western implica, dunque, valenze di tipo ontologico e, anzi, implica una vera e propria ontologia politica.

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